Ma perché pria del tempo a sé il mortaleinvidierà l’illusion che spentopur lo sofferma al limitar di Dite?Non vive ei forse anche sotterra, quandogli sarà muta l’armonia del giorno,se può destarla con soavi curenella mente de’ suoi? Celeste è questacorrispondenza d’amorosi sensi,celeste dote è negli umani; e spessoper lei si vive con l’amico estintoe l’estinto con noi, se pia la terrache lo raccolse infante e lo nutriva,nel suo grembo materno ultimo asiloporgendo, sacre le reliquie rendadall’insultar de’ nembi e dal profanopiede del vulgo, e serbi un sasso il nome,e di fiori odorata arbore amicale ceneri di molli ombre consoli.
Tratto dal carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo
Nel 1806, anno di composizione del carme Dei Sepolcri, un editto napoleonico impose anche sul territorio italico che i cimiteri sorgessero, per motivi igienici, fuori dai centri abitati e che le tombe recassero solo lapidi sobrie e semplici in nome del diritto di uguaglianza sancito dalla Rivoluzione Francese.
Questa decisione suscitò disappunto nelle cerchie degli intellettuali cattolici del tempo e non mancarono le polemiche.
Ugo Foscolo, benché ateo, non mancò di sottolineare l’importanza che le tombe rivestono per i vivi, quale luogo di intimo raccoglimento e congiunzione ideale col defunto: attraverso la corrispondenza d’amorosi sensi tra vivi e morti, i sepolcri assolvono all’importante funzione sociale di dare conforto a chi resta, oltre che di offrire l’ultimo giaciglio ai trapassati.
Il pensiero di Foscolo è condivisibile oggi come allora. Il rendere omaggio al defunto con un fiore o con una lapide curata ha un valore intrinseco che non è riconducibile solo a un fatto estetico: se la tomba non è in grado di rendere il sonno men duro, svolge però il delicato compito di preservare il ricordo di chi non c’è più dall’oblio del tempo, a patto che la sepoltura avvenga nel grembo materno e che ci sia una lapide a custodire il nome del defunto.
Foscolo analizzò l’editto di Saint Cloud dalla sua condizione di esule, tormentato dall’idea di morire lontano dalla terra natia e di non essere ricordato da alcuno. Morì solo, come temeva, ma le sue opere non sono state dimenticate e le sue spoglie furono traslate nella Basilica di Santa Croce a Firenze, quel tempio delle Itale glorie da lui cantato nel carme, cinquant’anni dopo la sua dipartita.
Il caso di Foscolo è senza dubbio eccezionale; benché non abbia goduto dei giusti riconoscimenti in vita, la gloria postuma continua a donare lustro al suo nome. Ma che dire delle migliaia di persone “comuni” che scompaiono senza offrire rifugio al dolore di chi resta?
Basti pensare ai desaparecidos, ingoiati da impietose fosse comuni e dalla cattiveria umana. O al mare, che affascina e nutre, ma che probabilmente ha fagocitato più persone in fuga verso la libertà di quante non immaginiamo. O, ancora, ai bambini che ogni giorno vengono rapiti senza che i genitori riescano ad averne più notizia, rimanendo appesi al macabro filo di una speranza divoratrice che non concede il ristoro della certezza, seppur dolorosa.
Ma il bisogno dei vivi non è solo quello di avere una lapide in ricordo del caro estinto, come spesso accade con le targhe commemorative. È la presenza delle spoglie, seppur corrotte dalla naturale decomposizione, a donare il vero conforto. Curare il sepolcro, impreziosirlo con un fiore profumato, indugiare di fronte a esso rivolgendo un pensiero all’estinto, è quasi come offrire le nostre attenzioni senza soluzione di continuità a qualcuno che abbiamo amato.
Ci sono però situazioni anomale e terribili in cui si conosce il cimitero in cui il defunto è sepolto ma non l’ubicazione precisa della fossa che lo accoglie. È il caso di tanti bambini nati morti, confinati nel limbo per non aver lavato via un peccato che non hanno commesso, ereditato in tutta la sua inconsistenza.
E chi scrive non può non ricordare un fratello che ha subito, nel 1960, questa triste sorte. Da piccola vagavo per i sentieri del cimitero paesano a cercare una traccia sopra quegli anonimi cumuli di terra. Taluni avevano, e hanno tuttora, una croce senza nome, senza lapide, senza fiori e senza conforto, altri neanche quella.
Nessuno della mia famiglia ha mai saputo dove sia stato sepolto, reo di non aver vissuto abbastanza a lungo per ricevere il battesimo e confinato, come altri, in lembi di terra di nessuno, non consacrata.
Io sono nata quattordici anni dopo, non ho un ricordo, né un legame d’affetto maturato nel tempo, ma non per questo la mancanza di una tomba a cui avvicinarmi è facile da accettare.
Anche di questo parla Foscolo nella sua opera: serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli.
Perché non siamo solo numeri nella geografia umana del globo; per la maggior parte delle persone non siamo nessuno, ma per qualcuno ognuno di noi può rappresentare l’immenso. Continuare a sentire il calore di un ricordo, la vicinanza di colui che è stato e non può tornare, aiuta a lenire il dolore della mancanza. E, soprattutto, dona a chi non c’è più l’immortalità nella memoria di chi resta, l’unica gloria a cui tutti gli esseri umani possono davvero aspirare.