Partendo dal presupposto che la condizione biologica di un animale quale è l’uomo esige la costruzione di una identità, il più delle volte tale esigenza crea un forte legame di dipendenza da alcune forme culturali che ne garantiscano un’integrità identitaria.
L’identità di ciascuno di noi dipende dal nome, ma anche da un insieme di scelte e di atteggiamenti messi in atto di fronte a determinati fenomeni; dipende da come noi decidiamo di affrontare certe situazioni; insomma, è una questione di decisioni. In questo senso la cultura entra in gioco prepotentemente, in quanto l’uomo di per sé richiede per il suo completamento biologico l’ausilio di un contesto di relazioni sociali, in quanto gran parte della costruzione umana avviene in ambienti socialmente condivisi. Completando culturalmente se stesso, l’essere umano diventa “un particolare tipo di uomo”, culturalmente definito (Geerts 1987:96).
Per poter parlare di identità deve sussistere una certa continuità nel tempo che deve andare di pari passo con un valore caratteristico che è la coerenza. Ciò che più di qualsiasi altra cosa garantisce la coerenza è la particolarità: quanto più si è particolari, tanto più si può parlare di coerenza e continuità, e quindi di riduzione della molteplicità con conseguente affermazione identitaria. Quindi va da sé che la particolarità risulta essere condizione imprescindibile dell’identità, portando con sé tutto un insieme di storie personali, acquisizioni e aspirazioni che sono uniche nel loro genere.
L’individuo è un essere che si costituisce sin dalla nascita in un contesto di legami sociali fondamentali per la sua costruzione. Ciò comporta che il concetto di identità si può utilizzare non solo per il singolo, ma anche per quanto riguarda una società. Ogni società ha una identità propria, unica, formatasi sicuramente dal contatto con ciò che è altro da sé; ogni cultura deve ciò che è anche alle continue interazioni, agli scambi, ai contatti con l’esterno. Qualsiasi società deve, pertanto, scontrarsi con l’alterità: più una società afferma la sua particolarità e più si percepisce il fatto che non sia essa l’unica forma esistente.
Ci sono società a cui non interessa rivendicare con forza la propria identità, mentre altre si costruiscono a discapito dell’alterità, perché essendo diversa fa paura, è ignota, è estranea, diversa, nemica; quindi questa alternativa deve essere bandita, negata a tutti i costi, rifiutandola e allontanandola. Il processo che porta all’allontanamento parte dalla separazione, non di due cose simili, ma del peggiore dal migliore. Laddove non sussista uno stato di apertura verso l’altro, l’identità viene collocata ad un differente livello rispetto all’alterità, il livello delle costruzioni, mentre l’alterità, posta ad un livello più basso, risulta far parte delle possibili molteplici alternative.
La totale chiusura, il fatto di bandire dal proprio spazio certe persone o gruppi di persone ritenuti diversi (per cultura, religione, etnia, sesso) può portare agli scontri, alle minacce, ad azioni discriminatorie. Tutto ciò si può tradurre in xenofobia ed etnocentrismo, provocando atteggiamenti di insofferenza, fastidio e pregiudizio verso tali persone, fino a sfociare in vere e proprie forme di razzismo, con pratiche di oppressione e segregazione; questo sfocia nel ritenere che la specie umana sia composta da un insieme di razze differenti biologicamente e per gerarchia.
Ciò che si cerca di esaltare è il fatto che, citando Wikipedia, l’altro è inferiore in quanto “non è come noi” ed è “quindi” ostile (in greco antico ξεν?ς, “xenos”, significa sia “straniero” che “nemico”), perché parla una lingua diversa dalla nostra (“barbaro” in greco significa letteralmente “il balbettante”), perché non professa la nostra religione, perché non si veste come noi (in molte lingue i concetti di “straniero”, “strano” ed “estraneo” hanno la stessa radice linguistica, che in italiano è quella del latino “extra”: “che viene da fuori”).
Da sempre la storia racconta di un susseguirsi di anni e anni di persecuzioni, di non accettazione del diverso, ci parla di caste, di gerarchie, di schiavitù, fino ad arrivare a tempi più recenti in cui la violenza scatenatasi contro il diverso esplode in tutta la sua follia traducendosi in genocidio ed olocausto.
Tutta la razza umana, in qualunque parte del pianeta, ha avuto a che fare con episodi discriminatori, ha dovuto fare i conti con l’altro, ha messo quindi in atto atteggiamenti banditori del “diverso da me, del lontano dalla mia identità”.
Tra il XIX e il XX secolo anche in Italia cominciò a farsi sentire sempre con più forza l’influenza delle teorie internazionali del razzismo, insinuandosi nella mentalità della popolazione posizioni anti-meridionali. Fautori di particolare influenza furono alcuni studiosi quali Cesare Lombroso, che teorizzava il riconoscimento di una innata natura criminale da riconoscere attraverso le caratteristiche fisiche delle persone prese in causa, concentrando i suoi studi sui briganti meridionali; ma anche Luigi Pigorini, Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo condussero una pesante propaganda razzista contro il meridione italiano.
I “mediterranei” erano accusati di essere dei “meticci” discendenti di popolazioni preistoriche di razza africana e semitica. Questi sono solo alcuni dei nomi importanti che contribuirono in Italia a orientare la cultura e l’opinione pubblica verso tali ideologie.
Tutto ciò può veramente far rabbrividire se si pensa che oggigiorno la razza umana dovrebbe aver acquisito la consapevolezza del fatto che “l’altro” è parte costitutiva ed integrante del nostro mondo, pur se parla una diversa lingua, pur avendo culture differenti, pur tramandando tradizioni diverse dalle nostre.
Gli altri calcano insieme a noi la scena del mondo con la loro presenza, e questo dovrebbe essere un fatto ovvio e indiscutibile, invece l’unica cosa che salta agli occhi è la quasi totale incapacità di “sentire” l’altro anche in questa epoca contemporanea.
Purtroppo si deve prendere atto di una triste realtà: al giorno d’oggi qualcosa sta continuando a cambiare relativamente al modo che si ha di pensare a sé, a ciò che si è e a ciò che sono gli altri, a ciò che si vuole essere e a come si vuole essere rappresentati, quindi anche al nostro ruolo nel mondo e al ruolo che occupa l’altro.
Tutto questo comincia a diventare sempre meno una questione personale e sempre più un progetto collettivo, che spesso e volentieri dipende molto da questioni politiche e che, a mio avviso, porta con se un carico di ipocrisia non indifferente.
Fonti
Laura Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, 2006, Raffaello Cortina Editore.
Clifford Geerts, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, 1999, Il Mulino.
Remotti, Contro l’identità, 1996, Editori Laterza.
Carlo Benazzo, Panorama di attualità, 1996, Petrini Editore.