“La morte – scrive Pasolini – compie un fulmineo montaggio della nostra vita:
ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.
Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita.”
Così il genio di Pier Paolo Pasolini spiegò il montaggio, il piano sequenza e la morte. Il piano sequenza è un movimento di macchina continuo senza stacchi né interruzioni e insieme alla profondità di campo, la quale mette a disposizione dello spettatore una vasta aerea completamente a fuoco – permettendogli così di spaziare con il suo sguardo all’interno dell’immagine senza essere veicolato dal regista – costituisce secondo Andre Bazin lo strumento cinematografico atto alla riproduzione della realtà: lo spettatore assiste in tempo reale allo svolgimento filmico, senza ellissi spazio/temporali.
La realtà di cui si parla è indubbiamente quella presente. Si, poiché il montaggio, come dice Pasolini, rende il nostro presente inevitabilmente passato.
Il cinema, come la vita, è una relazione tra tempo e realtà.
Infiniti studi semiotici e mediali girano da circa un secolo attorno a ciò che distinse originariamente le sperimentazioni del pre cinema e mirano a evidenziare le differenze che intercorrono tra fotografia e fotogramma.
Roland Barthes, critico strutturalista e autore del celebre testo “La camera chiara”, condanna la fotografia a uno stato crepuscolare perentorio: nel suo determinare un distinto attimo di spazio e di tempo, non lascia possibilità né di un altrove né di un momento difforme.
La dimensione fotografica dell’esserci stato è dunque facilmente accostabile alla fissità e all’irrimediabile condizione mortuaria.
Il cinema invece, con la contemplazione degli spazi extra-diegetici/fuori dalla scena (come ad esempio i dialoghi con il fuoricampo; l’entrare e uscire dei personaggi dal quadro) e l’articolazione/successione dei fotogrammi secondo una logica temporale, sia essa di sviluppo o regresso, acquisisce una connotazione contingente.
Tuttavia, l’interruzione della successione di continuità nello spazio-tempo, ossia del piano sequenza, opera percettivamente un micro-trauma percettivo nello spettatore: la relazione tra l’inquadratura precedente e quella attuale declassa la prima da “presente” a – inevitabilmente – “trascorsa”.
La continuità che induce a un costante stato di presenza e la ripetizione sono gli unici elementi capaci di esorcizzare – antropologicamente e archetipicamente – la “morte”.
La reiterazione o ripetizione, appartenente alla fotografia in un senso non necessariamente cinematografico, sembra assolverla dalla condanna Bathesiana.
La Jetée di Chris Marker ne è forse l’esempio più noto: film fotografico o fotografia filmica, “paradigma dell’immagine fissa inserita nel flusso dinamico”, esorcizza la mortificazione della fotografia attraverso la ripetizione “che ci perde, e ci salva”. 1
Il film ha inizio con un ricordo, un’immagine-ricordo del protagonista da bambino; scopriremo poi che quell’istante del passato risiede contemporaneamente nel futuro.
La vicenda si compie nel tempo circolare, in un eterno ritorno.
Tantissimi altri artisti e cineasti hanno lavorato per espandere l’arcaico confine che immola la fotografia a favore di un fotogramma che attraverso il montaggio è destinato a medesima sventura.
L’americano Duane Michals, ad esempio, realizza dei foto racconti attraverso una successione consequenziale di scatti distinti, i quali contengono al loro interno elementi che dialogano con lo scatto trascorso e quello prossimo.
Questo stratagemma permette di ovviare all’impossibilità del singolo scatto fotografico di fuoriuscire dalla sua condizione di fissità diegetica: la tessitura, tramite un “montaggio” ciclico, scongiura il tempo mortale, conducendo la fotografia allo stato di piano sequenza.
Forse tuttavia, non è la durevolezza del soggetto, la sua persistenza, ad allietarci, poiché nulla è più caduco di qualcosa che procede nel tempo, ma la sua ricomparsa, quandanche sembrerebbe svanire, egli riecheggia nella continuità di un accenno, di un indizio, nella costanza anche di un solo singolo elemento, che ritorna e ritorna.
Bibliografia
B.Di Marino, Pose in movimento, Bollati Boringhieri, Torino 2009
1 Deleuze, Immagine-movimento cit.,p. 157
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