“Posso solo immaginare cosa potesse essere Bari ai tempi del califfato. Una città in cui il mare arrivava fin sotto le mura e passava, in alcuni casi, anche attraverso alcuni spazi, dove le barche scaricavano le merci all’interno… immagina quali potessero essere i melismi, i suoni, i colori.” A parlare è Roberto Ottaviano, sassofonista, direttore artistico di Bari in Jazz, da sempre attivo nella direzione ardua e affascinante di unire melodie ed avanguardie, ricerca e ancestralità. “Come disse un amico giornalista anni fa, Bari potrebbe svolgere un ruolo con alcuni paesi del Mediterraneo – da quelli del Corridoio 8, la Grecia, la Macedonia, l’Albania, i paesi dell’ex Jugoslavia e poi, in generale, con quelli che si affacciano sulle altre sponde – simile a quello avuto da New Orleans a suo tempo. Ci sono realtà jazzistiche molto forti in tutti questi paesi, Bari potrebbe essere ancora oggi un centro nevralgico oltre che di smistamento delle idee: se si potessero unire più festival per assegnare delle commissioni ad artisti in grado di lavorare in modo concreto sulle influenze musicali di questo nostro mare, averli in residenza per una settimana, dieci giorni, e vederli operare su una progettualità, a quel punto, autentica, non soltanto di facciata o legata in maniera posticcia al Mediterraneo. Negli ultimi anni il termine è stato abusato: il Mediterraneo è la mia terra, però talvolta viene saccheggiata, diventa un cliché.”
“Il dialogo con i luoghi della città è una scelta non semplice da seguire, ma molto intrigante: costringe le persone a spostarsi e a scoprire posti e dimensioni alle volte completamente inaspettate.” La prima edizione si è svolta, nel 2005, all’interno delle Piscine Comunali, un luogo decisamente atipico. “Dopo le piscine, abbiamo sperimentato molti luoghi: quest’anno per ragioni climatiche ci siamo spostati dal Castello Svevo, dove eravamo l’anno scorso, al Teatro Piccinni. Sto già pensando a delle ipotesi ulteriori per il prossimo anno, perché l’idea di scoprire nuovi spazi architettonici è affascinante. Di sicuro, conserveremo la scelta delle piccole chiese per i concerti in solo: da l’opportunità all’artista solitario – ma anche al duo e al trio – di lavorare molto sulla ricerca, una dimensione come quella offre la possibilità, il respiro giusto per poter praticare una ricerca di carattere timbrico. Dall’altra parte ci sono le piazze. Il momento della festa e credo che sia, in altra maniera, un momento importante, non solo per la visibilità dello sponsor, ma anche per far arrivare la musica e l’impatto sonoro a un pubblico più ampio ed è anche una dimensione più aperta, tanto è vero che si rivolge al mare in uno scenario naturale. E ovviamente permette di non escludere artisti adatti per un contesto come quello della piazza.”
Per molti anni Bari non aveva più avuto un festival jazz. “Sicuramente c’erano state le esperienze di Noci e di Ruvo, ma in città non c’era stato nulla di simile. Bisognava ricompattare tutta una serie di realtà: pubblico, forze istituzionali, sponsor privati, organizzazione. La prima edizione fu l’occasione in cui provammo a ricucire dei fili che si erano completamente persi. Come città abbiamo spazi architettonici e peculiarità diverse da quelle delle città della Toscana o dell’Umbria: non abbiamo piazzette completamente circoscrivibili, per esempio nel nostro centro storico, bisogna fare una fatica improba per trovare degli spazi adatti. Le difficoltà sono principalmente due: una è di carattere ambientale, l’altra organizzativa. Le persone che abitano il centro storico hanno priorità ed esigenze completamente diverse da quelle di un concerto o di un’attività culturale: se si occupano gli spazi con fare colonialistico, queste esigenze, queste emergenze te le fanno sentire fisicamente. Dall’altra parte, ottenere le autorizzazioni per fare le manifestazioni nel centro storico sta diventando sempre più complicato come se un festival come Bari in Jazz fosse la movida rumorosa e caotica che viene proposta spesso e volentieri nei centri storici e che crea problemi alla popolazione.”
La scena musicale pugliese e, soprattutto, il suo “vivaio” sono estremamente ricchi. “Li conosco tutti e posso dire di aver visto crescere, negli anni, il talento, le potenzialità e le doti di molti musicisti. Sin dal primo momento ho pensato che i nostri musicisti dovessero avere uno spazio utile all’interno del festival, importante per progettare, per crescere e misurarsi, per ascoltare, per avere un palco che offra loro pari dignità rispetto ai musicisti che vengono da fuori.” Infatti nel cartellone, fin dalla prima edizione sono stati presenti tantissimi musicisti del territorio. “E ce ne saranno tanti altri nelle prossime stagioni: come direttore artistico, per tutelare loro come musicisti e il pubblico che ascolta, impongo che all’interno del cartellone non vengano presentati progetti ascoltati la sera prima o durante tutto l’anno, ma voglio che si presentino portando un qualche cosa che valorizzi al meglio le potenzialità dell’artista. Ecco perché cerco di creare un minimo di aspettativa anche sull’artista del nostro territorio.”
La scena si è evoluta ed è anche tra le più riconoscibili, con alcune personalità molto forti anche a livello internazionale. “Credo, non a caso, che Gianluca Petrella, uno tra i nostri musicisti più importanti, sia decollato subito.” Petrella, oltre che venire da una famiglia di musicisti, unisce un forte gusto per il jazz e la sperimentazione. “Da subito, ha manifestato un tale senso di urgenza, una volontà musicale così trasgressiva da fondere tutte le cose che aveva appreso nel suo stile. È una caratteristica del musicista che c’è in Puglia: ci si trova spesso a confrontare con linguaggi e situazioni diversi e si cerca di mettere a disposizione la propria musicalità in ogni contesto. Nel mio piccolo ho cercato sempre di stimolarne alcune: già negli anni settanta ero attivo in una piccola cantina che si chiamava Cinestudio che ha proposto alcuni artisti internazionali, come Anthony Braxton o Muhal Richard Abrahams, in alcuni casi si è trattato di prime assolute a meridione di Roma. poi lo Strange Fruit durante gli anni ottanta. La pugliesità viene fuori da questo tipo di situazioni molto caleidoscopiche che la nostra regione offre: sarà anche un fatto geografico, vista la lunghezza della nostra regione, con tali e tante differenze tra il Salento e la Daunia e l’Alta Murgia da renderla estremamente ricca.”