C’è un popolo che si muove sulle acque. Un popolo eterogeneo, fatto di marittimi e pescatori spinti da necessità di ogni sorta, forse dalle contingenze, forse dalla noia. Uomini. Talvolta ci facciamo caso, magari quando approdano sulla terra ferma, mettono piede nelle loro case, entrano nelle nostre vite oppure le sfiorano, di striscio…
Nel loro partire e nel loro andare essi sono soli e decidono autonomamente cosa portare nel bagaglio, nel cuore e nella mente; sono solo loro, giacché la partenza inizia con l’allontanamento dagli affetti, dalla realtà della terraferma e il viaggio consiste nel perdurare di questa distanza, per materiale o affettiva che sia, per consentire l’ottenimento di qualcosa o l’avvicinamento verso qualcos’altro… Poco importa cosa, agli habitué del luogo comune e per chi si adagia sulle spiagge della congettura, al riparo dai flutti, dal confronto e dal mutamento, almeno quello di prospettiva è concessa immaginazione a volontà.
Il durante, la transizione tra inizio e il ritorno, appartiene solamente al viaggiatore. Poiché per condividerne appieno, culturalmente ed emotivamente, il cammino, non già una semplice enumerazione di coordinate o tappe, non un mero tracciamento di rotte, implicherebbe vedere ciò che ha visto coi suoi propri occhi e quanto ha vissuto e appreso con gioia e fatica sulla propria pelle, bisognerebbe vibrasse sulla nostra per poterlo assaporare.
Per chi resta, per chi si guadagna il diritto all’attesa e ha cuore, voglia di sapere e capire, c’è il ritorno. Il ritorno di chi porta dentro sé tutto questo carico di vita: vita di mare e vita vissuta. E allora il ritorno diventa di tutti, l’esperienza del singolo tesoro comune. E dunque la scia marina che ogni cammino acqueo lascia dietro sé si riapre col racconto, con la narrazione che sa di vero, che sa di mare, di tutti i mari e delle spezie di chissà quale porto.
Con voce da albatro, a volte stridula, rotta al solo riaffiorare di quell’attimo, quel ricordo e alle altre intensa, rinforzata dal lungo respiro dell’oceano. Fiera e sentimentale al contempo, intrecciata da tutti i venti esistenti, sbroglia il marinaro esperire di chi abbia saputo attestare il proprio posto nel mondo, senza aver mai perso quello in mezzo alla comunità. E la storia si espande, scorre e sussurra come l’acqua lungo la carena e diventa tesoro comune, un tesoro ancora capace di alimentare sogni e conoscenza per tutti.
Ma un navigatore solitario riesce a fare qualcosa che va ben oltre il miracolo di una vita degna di essere vissuta, capace di trasmettere qualcosa di ancora più profondo di chi benevolmente, per mare o per terra, condivide, in termini di soluzioni e saperi, col prossimo. Un mito, una visione.
Che si sappia in giro, c’è una filosofia dell’andar per mare ch’appartiene a chi insegna a se stesso per diventare maestro, e restare eterno studente assieme. Di chi, per ateo o credente che sia, benedice e pratica il libero arbitrio e il mare che gli ha concesso di professarlo, poiché la libertà non s’è mai mischiata col tempo libero, e ha sempre avuto a che fare con quel che si sceglie di fare. Scegliendo di farlo bene ogni santo giorno inseguendo la lunga rotta, la vita, e portarla a termine, per quanto possibile o meno, sempre e comunque a proprio modo. Un modo di vivere la solitudine per introspezione, per pregustare e apprezzare quell’attimo di felicita’ che si prova dopo essersi ritrovati con se’ stessi e con gli altri dopo lunghissimo tempo; un modo di allontanarsi dalla terraferma, questo grembo materno, e da questa umanità, talvolta cosi’ meschina, aborrendone la pochezza per contemplarne i pregi, poiché c’è ancora del buono in noi e basta crederci per non arrendersi al cinismo. Un modo per essere un tutt’uno con quella parte acquea del creato e con la barca.
Bernard Moitessier, tutt’oggi, incarna tutto questo.
Navigatore e scrittore francese, cosi’ e’ ricordato. Nacque ad Hanoi nel fertile delta del fiume rosso il 10 aprile del 1925; passò gran parte della sua infanzia in Indocina e cominciò a navigare precocemente su natanti a vela costruiti da lui stesso, grazie alle nozioni apprese presso un istituto professionale.
La svolta, ossia il vagabondaggio per mare, ha inizio nel 1947 quando abbandona il lavoro presso la ditta del padre, lasciando definitivamente la famiglia. Lo fa a bordo di una piccola giunca, andando in giro nel golfo del Siam. E poi con l’amico Pierre Deshumeurs a girovagare su un malandato ketch di 12 metri nei mari della Cina e nel mar di Giava. E finche’ lo “snark” si tenne a galla Moitessier fece di tutto per condurlo, ma quando le falle diventarono troppe, sbarcò. Fedele alle sue inclinazioni riprese le vie del mare nel 1952 ripartendo da Singapore, affrontando da solo i monsoni nell’oceano indiano a bordo della giunca “Marie therèse”, portata ad incagliarsi sugli scogli per un errore di carteggio, presso le isole Chagos.
Moitessier si guadagnò da vivere a Mauritius lavorando come pescatore subacqueo e svolgendo molte altre attività manovali, fin quando non trovò un incarico di segreteria presso il console francese; risparmiando riuscì a costruire il “Marie Therèse II” con cui mollò gli ormeggi di nuovo navigando nell’atlantico per raggiungere Trinidad a cuba.
Ebbe dei trascorsi in Sud Africa e da lì ripartì col suo amico Henry Wakelam per una nuova avventura quando si ritrovò a navigare nel Mar delle Antille. Ma a causa delle lunghe, estenuanti ore di navigazione e per un colpo di sonno, perse anche il “Marie Therèse II”.
La depressione per questo secondo naufragio fu davvero forte, tanto che decise di imbarcarsi come mozzo su un cargo per pagarsi il viaggio verso la terra natia dei suoi genitori. E col duro lavoro e la non facile vita a bordo si scrollò di dosso la delusione, aiutandosi anche con l’esercizio della scrittura: fino ad allora i suoi diari di bordo erano tecnicamente ordinari e si limitavano alla compilazione degli elementi necessari alla navigazione, ma sporadicamente si intravvedeva qualche aforisma, delle citazioni derivanti dalle sue letture sui libri di Alberto Moravia, Antoine de Saint- Exupèry e Charles Baudelaire; le letture lo appassionarono così tanto che cominciò a scrivere per conto proprio, dando vita al suo primo libro dal titolo “Un vagabondo dei mari del sud”.
Una volta sbarcato in Francia e recuperato quel suo inconfondibile entusiasmo fece molte nuove amicizie, trovò un lavoro come rappresentante di medicinali e ricominciò a sognare. E il sogno prendeva piede giorno dopo giorno, finché non cominciò a materializzarsi: elaborò l’idea di realizzare una barca solida, tutta d’acciaio; conobbe un certo signor Fricaud, un uomo d’industria, e Jean Knocker. Il Primo gli fornì tutta l’attrezzatura necessaria alla costruzione e il secondo, dietro i suggerimenti di Bernard, ne disegnò il progetto. E cosi’ nacque il “Joshua” un bellissimo ketch tutto bianco e rosso il cui nome era dedicato al grande Joshua Slokum e che aveva la peculiarità di armare pali telegrafici come alberatura (quando si dice “fare di necessità virtù”). E col Joshua comincerà ad impartire lezioni di vela in tutto il Mediterraneo.
Nel ’61 Bernard sposò Françoise de Cazalet e con lei, due anni dopo, partì in viaggio di nozze per la Polinesia; avendo condiviso la traversata sotto tutti gli aspetti, alternandosi al timone i due decisero di effettuare il viaggio di ritorno, partendo da Moorea, nell’arcipelago delle isole della società, il 23 novembre 1965. Questa traversata da Tahiti ad Alicante via Capo Horn divenne una delle imprese veliche più famose: dopo aver navigato per sei giorni in un mare burrascoso e con onde alte fino a venti metri, il Joshua, l’11 gennaio del ’66, riuscì a doppiare l’Horn e dopo 126 ininterrotti giorni in mare i coniugi Moitessier giunsero sani e salvi ad Alicante; il secondo libro scritto da Bernard, “Capo Horn alla vela”, scaturì proprio da questa memorabile avventura, e fu proprio nello scriverlo che cominciò a frullargli nella testa l’idea di un’impresa ancora più estrema e mai compiuta prima: il giro del mondo doppiando i capi di “Buona speranza”, “Leeuwin” e l’ “Horn” senza effettuare scali!
Nel ’68 mentre escogitava come armare il Joshua e prepararlo ad affrontare il rischioso viaggio, i “40 ruggenti” e i “50 urlanti” il “Sunday times” lo indispettì alquanto indicendo la prima regata in solitario intorno al mondo, la “Golden globe race”, fissando la partenza da un qualsiasi porto inglese, in una qualsiasi data e doppiando, per l’appunto, i tre capi.
Bernard Moitessier, vista la posta di 5000 sterline messa in palio dal giornale, era davvero furente: non voleva affatto che un’impresa eroica che avrebbe dovuto elevare la grandezza dell’amore dell’uomo per il mare e per l’avventura venisse sminuita, ridotta in una banale competizione sportiva che avesse per movente il vil danaro.
Decise comunque di parteciparvi. Accettò e partì da Plymouth il 22 agosto 1968.
Bernard Moitessier durante la “folle regata” dimostrò al mondo intero quanto fosse implacabile e puro il suo spirito di navigante: pur essendo partito un mese dopo Robin Knox-Johnston, un partecipante che era stato in testa alla competizione per tutto il tempo, lo superò dopo aver doppiato i tre capi, con la vittoria garantita annunciò che avrebbe abbandonato la gara per proseguire la rotta meridionale e passare nuovamente al traverso del capo di buona speranza.
e così fece!
Navigò il globo una volta e mezza, percorrendo 37455 miglia marine, sino ad atterrare a Tahiti il 21 giugno 1969. A Knox le 5000 sterline, a Bernard Moitessier la gloria e il riconoscimento di un coraggio sovrumano, di una forza capace di dare conferma alle parola con le gesta, la coerenza di spirito. “Sono felice in mare…e forse anche per salvare l’anima” scrisse nel suo “La lunga rotta”, libro narrante la celebre impresa che parla ancora oggi all’uomo e al navigante con un linguaggio straordinariamente semplice e modesto, generosamente ricco di quell’esperienza, così amaramente appresa, capace di commuovere ancora persino le moderne generazioni di velisti.
Un mito come Bernard Moitessier non lo si riesce a spiegare se non con le sue stesse parole: “laggiù….se un mercante potesse spegnere le stelle, affinché le sue insegne pubblicitarie si vedano meglio, forse lo farebbe. Dimenticare tutto questo. non vivere che col mare e con la mia barca, per il mare e la mia barca”. E ancora: “la scia si allunga, di giorno bianca e densa di vita, di notte luminosa come una chioma di sogni e di stelle…vento, mare, barca e vele formano un tutto unico, compatto e diffuso, senza principio ne fine, che è parte e tutto dell’universo, di questo mio universo.
Guardo il tramonto, respiro l’aria dell’alto mare, e il mio essere si schiude, la mia gioia vola così in alto che nulla può raggiungerla. In quanto alle cose che talvolta mi turbavano, non hanno alcun peso di fronte all’immensità di una scia vicinissima al cielo, e colma del vento marino, che è immune da moventi comuni e meschini”.
Bernard Moitessier era a bordo del Joshua con l’attore Klaus Kinski quando fu sorpreso da un ciclone tropicale mentre era all’ancora vicino alla costa messicana. Il Joshua subì gravissime avarie quando si arenò sulla spiaggia, tanto che Bernard, non essendo nella condizione di poterlo riparare, decise di donarlo ai due ragazzi che lo aiutarono a rimetterlo al galleggiamento. Correva l’anno 1982, ebbe da Ileana un figlio nel ’71, Stephan. Da un atollo remoto delle Tuamotu, sul quale si trasferì, continuò a navigare a bordo della sua ultima barca “Tamata”, ossia “tentare” in polinesiano; si batté fino alla fine in favore dell’ecologia e contro il disarmo nucleare, scrisse “tamata e l’alleanza” con l’intento di viaggiare a ritroso nel tempo, ripercorrendo la lunga rotta, la sua vita, con profonda riflessione. Prima di morire a Parigi accanto alla sua compagna Veronique, il 16 giugno 1994, riuscì a vedere, più che l’indiscusso successo, il coronamento della sua esistenza con l’ammirazione di chi ha voluto imparare a conoscerlo e ad amare.
Le sue spoglie mortali sono sepolte a Le bono, nel golfo di Morbihan in Bretagna, parte del suo spirito invece è sul Joshua, che dal 1993, successivamente acquistato e consegnato al museo di arte navale di la rochelle, è nave scuola.