Economia e distruzione della biodiversità
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Articolo di Milena Fadda

Da sempre crocevia di scambi economici e culturali, il Mediterraneo, nel primo decennio del 2000 ha visto le proprie potenzialità geopolitiche ridotte a puro sfruttamento speculativo e teatro di un sempre crescente abusivismo edilizio.
Il prezzo dello sviluppo, è come noto, l’ ambiente: se la presenza umana non sfugge alle leggi naturali, la biodiversità mediterranea rischia di essere compromessa dalle recenti trivellazioni al largo di Israele, Egitto, Libia e Provenza. Protagonista indiscusso, ancora una volta, lo sfruttamento energetico, in questo caso di gas metano e idrocarburi liquidi, da parte dei paesi che si affacciano sul Mare Nostrum.

Come se non bastasse, la pesca eccessiva, insieme a un sempre crescente ritmo di allevamento, rischia di minare alla base una biodiversità tra le più fragili del pianeta. Se ogni anno, dal Mediterraneo vengono prelevate circa 1,5 milioni di tonnellate di pesce con metodi spesso illegali, occorrerebbero 90 anni per rinnovare l’intero volume delle sue acque.

Altra minaccia, causata da quella che i volontari del WWF chiamano antropizzazione
(insediamento umano e conseguente modifica degli ecosistemi preesistenti), è l’ urbanizzazione del paesaggio: 150 milioni di abitanti in 46 mila chilometri di coste, non possono non lasciare tracce.
WWF Italia stima una presenza di 3,8 miliardi di metri cubi di rifiuti annui, con rischio di estinzione per specie vegetali e animali come la posidonia, il capodoglio e la tartaruga marina comune. Per quanto riguarda invece la foca monaca, da tempo sfrattata dalle coste sarde, la mappatura delle sopravvissute riporta il dato di 500 esemplari residenti tra Francia, Spagna atlantica e Mauritania.

A correre ai ripari, l’Unione Europea, che dal 2007 mira a riqualificare il Mediterraneo, puntando sulle professionalità legate a trasporto, acquacoltura, pesca, cantieristica navale. Il sistema messo in atto prevede la creazione di una rete europea per la sorveglianza marittima, con relativi accordi di partenariato tra guardie costiere degli Stati membri, una gestione integrata delle coste, e un database che raccolga i dati relativi all’ iter di attuazione del programma.

Obiettivi forse troppo ambiziosi, se si tiene conto degli interessi in gioco, a livello soprattutto internazionale: una strategia mediterranea mirata è ancora lontana dall’ essere raggiunta, dato che proprio sulle coste, 30 milioni di ettari soggetti a desertificazione sono stati segnalati già nel 2007.
In agenda, nel frattempo si avvicina l’ appuntamento con il 2020, in cui i ministri euro-mediterranei sperano di aver abbattuto inquinamento e cambiamento climatico. Ancora una volta, la convenzione di Barcellona nella versione aggiornata del 1995, consapevole dei limiti strutturali relativi all’ attuazione, fa appello alle amministrazioni nazionali e locali.

Trasporti, PIL e acquacoltura, settori da sempre strettamente collegati, chiedono a gran voce, nel frattempo, quella sostenibilità auspicata da molti e finora difficile a raggiungersi, specialmente in quelle regioni a rischio ecologico. L’ istituzione di aree marine protette, come quella del Santuario dei Cetacei avviata nel 2005 non preservano dalla perdita di habitat verificatasi negli ultimi anni, complice lo sviluppo industriale certificato sulle coste di Francia, Italia, Macedonia e Turchia.

E proprio la Turchia, le cui restanti foche monache si attestano a una presenza di 42 esemplari, vede minacciato il proprio ecosistema marino, dall’ introduzione massiva di specie ittiche esotiche. Uno sviluppo poco coerente, quindi, che oltre a minare l’ habitat marino, colpisce indirettamente anche le attività commerciali ad esso collegate, basti andare a visitare le coste adriatiche per rilevare a occhio nudo la presenza di mucillagine, o quelle tirrene per il sovrappopolamento delle meduse, perfettamente riconducibili alla tropicalizzazione del bacino del Mediterraneo, con effetti devastanti sia sul mercato ittico sia su quello turistico. La temperatura del nostro mare, in crescita di 4 centesimi di grado ogni anno negli strati profondi, mette a rischio la pesca e le specie che lo abitano, a iniziare da coralli e spugne. È il cosiddetto effetto “soffocamento” ad allarmare i volontari di Greenpeace, dovuto al fatto che il Mediterraneo è per conformazione un bacino semi-chiuso, a poco ricambio e dall’ ecosistema precario.
E precarietà è la parola chiave che caratterizza anche la situazione geopolitica del Mediterraneo.
Si chiamano Northern Petroleum, ADX Energy e Shell, i nemici giurati delle specie marine, secondo gli esperti di ISPRA, istituto fondato nel 2008 a titolo di osservatorio per la ricerca ambientale; aziende votate alla ricerca e estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi, che già dal 2009 hanno fiutato il volume d’affari al largo del canale di Sicilia, punto d’ incontro tra specie atlantiche e asiatiche. A nulla è servita la proposta di istituire almeno al largo di Pantelleria una no-fly zone, con divieto di trivellazione: i tredici chilometri off-limits imposti dalla legislazione italiana terminano proprio in acque internazionali e rientrano negli accordi con la Tunisia.

Il tutto alla luce dell’ intesa siglata nel 2010 tra British Petroleum e Libia, in cui, in caso di disastro ambientale, a fronte dei 3 milioni di barili estratti al giorno, un eventuale risarcimento coinvolgerebbe solo il governo libico, un po’ poco se si pensa che il territorio coinvolto nelle ricerche dell’ oro nero si aggira intorno ai 50 mila chilometri quadri e si colloca a 500 chilometri dalla Sicilia. In aggiunta, la Libia non gode al momento di una stabilità politica sufficiente a tutelare gli interessi comuni. Tutti punti interrogativi cui le comunità internazionali (prima fra tutte l’ UE) non sembrano in grado di fornire risposta, e che gravano giorno dopo giorno su un’ area, quella mediterranea, ancora una volta terra di conflitti politico-economici, e di predoni.

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