La figura del brigante post-unitario nella musica popolare del Sud Italia.
Da sempre, la cultura popolare ama evocare figure eroiche e dallo spirito nobile. Dal Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri al Subcomandante Marcos, spaziando in epoche e territori differenti, rimane ovunque quella passione “romantica” per figure capaci di sacrificare sé stesse per il bene comune del popolo e che, per questo motivo, vengono “bandite” e dichiarate “ricercate”.
Non è un caso che tali figure emergano durante periodi storici dall’elevata importanza politica ed economica e non è altrettanto strano il fatto che le loro gesta vengano narrate prima dalla musica e solo dopo dalla carta. La musica è sempre stata “specchio” della società e strumento privilegiato di comunicazione e grido di rivolta e, soprattutto in una situazione di banditismo e conflitto, quale veicolo di propaganda e infusione della speranza può essere migliore di essa? Il canto ha la capacità di lasciare il proprio segno nell’anima e nella mente delle persone in maniera fugace e al tempo stesso profonda. Si fissa nel nostro modo di pensare e di sentire, si trasmette col vento e lascia alle autorità solamente la traccia di qualche nota.
Anche per quanto riguarda il Brigantaggio del nostro Meridione, le sorti non sono state differenti. A tale proposito, basti pensare alle espressioni – tenere e materne – con cui le popolane calabresi continuano a rivolgersi ai bambini: brigantiellu, brigantiellu miu. Sempre dalla cultura popolare calabrese, sono giunte sino ad oggi le poesie scritte dal “Re di la Montagna”, pseudonimo del capobrigante Mimmo Strafaci detto “Palma”, il quale era solito sfidare i suoi nemici canticchiando il verso: tira, nimicu miu, tira la pinna.
É interessante osservare che nel brigantaggio post-unitario, con il termine “bandito” non si indicava solamente l’uomo o la donna che combatteva contro le autorità. Per attività eversiva vennero condannati anche tutti quegli autori di testi e musiche che avevano per centro tematico l’eroicità del brigante. A partire dal 1861, agli artisti “briganti” cominciarono ad opporsi tutti quegli altri che avevano deciso di comporre per l’appena nato Stato d’Italia. Il risultato fu da una parte l’inquinamento di molti testi originariamente dedicati all’operare etico dei briganti, dall’altra una produzione parallela che li descriveva come assassini e delinquenti. La classe dominante aveva ben capito l’importanza della musica e pensò bene di utilizzarla per veicolare l’idea della necessità di un’unità solida su tutti i fronti (spaziale, economico, religioso, linguistico e culturale) e per screditare l’immagine del brigante rappresentata dalla corrente politica ed artistica avversa.
Bisogna comunque aspettare l’attuale 150° anniversario dell’Unità d’Italia e la recente pubblicazione del libro di Eugenio Bennato, Brigante se more. Viaggio nella musica del Sud (Coniglio Editore, 2010) per far tornare alla ribalta vecchi e moderni canti ispirati ai briganti del Mezzogiorno. Se da una parte entrambi riaccendono questioni storiche, morali e politiche circa l’annessione del Sud Italia, dall’altra fanno conoscere – anche ai più “lontani” – la figura ormai “mitizzata” del brigante.
Per conoscere e comprendere quale questa sia, è necessario porre attenzione alle descrizioni e ai messaggi – impliciti ed espliciti – che queste musiche ancora oggi continuano a diffondere.
Utilizzando i più disparati dialetti del Sud Italia, la narrativa principale di questi canti inizia e prosegue insistendo sulla tematica dell’ingiustizia subita (invasione, depredazione, impoverimento indotto con la forza, imposizione di nuove norme distanti dalle proprie abitudini culturali e sociali). Come risposta, alcuni testi adottano la vendetta, altri la resistenza. Per perseguire entrambe le finalità, il brigante è costretto ad uscire dal vivere “civile”, allontanandosi dai propri cari e divenendo un “fuorilegge” disprezzato dalle autorità ma profondamente amato dal suo popolo.
Il testo e la sua diffusione cantata assumono un valore socio-politico il cui compito principale diviene quello di esprimere il disagio di molti, generare fratellanza fra i diseredati, infondere la speranza di un futuro migliore o, ancora, voler svegliare le coscienze di tutta la gente che, non avendo ancora compreso bene quanto sta accadendo, rimane ferma ed impassibile a guardare il volgersi degli eventi (“Vulesse addeventare nu brigante”, di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò).
L’uccisione del nemico non è mai gratuita, né mossa dall’arricchimento o dalla soddisfazione personale e persino la violenza ha una valenza eticamente positiva in quanto finalizzata ad un bene ultimo e comune: la libertà (“Tammurriata alli briganti” dei Villanella; “A lu Savoia” secondo alcuni d’autore anonimo, secondo altri collegabile alla persona di Basilio Santocrile; “Liberi e senza patruni” del Gruppo di Musica Popolare Lira Battente).
Allo stesso tempo, cantare o semplicemente ascoltare il canto generano una sorta di catarsi capace di alleviare le sofferenze provocate dall’ingiustizia e dal sopruso subiti. Non mancano, infine, a chiusura dei testi, morali o avvertimenti.
Nella canzone “A la muntagna” di Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò e Teresa De Sio l’epilogo si concentra tutto sulla sconsolante presa di coscienza che può cambiare l’oppressore (Borbone prima, Savoia dopo) ma non il potere, mai buono e sempre attento a mantenere i poveri in una condizione di emarginazione e miseria.
Non sono solo le gesta di banditi uomini a venir celebrate nei testi musicali, ma anche quelle delle brigantesse, per nulla inferiori ai loro “colleghi” maschi (“Brigantesse” di Mario Azad Donatiello e “Il sorriso di Michela” di Eugenio Bennato, dedicata alla brigantessa campana Michelina De Cesare).
Musica e rivolta potrebbero, dunque, essere le parole chiavi per comprendere una tradizione che dal lontano XIX secolo arriva sino ad oggi. Gli attuali generi hip hop e rap che hanno accompagnato le recentissime rivolte nel Maghreb ne sono l’esempio più lampante. Ne è conferma anche la musica dei Tuareg quando, negli Anni Settanta, attraverso la composizione di motivi ispirati alla ribellione e all’indipendenza di questo popolo, il colonnello libico Gheddafi volle creare una portentosa macchina propagandistica. Sette note che dal Sud d’Italia s’allungano per tutto il Sud del mondo, accogliendo universalmente i diritti alla libertà fisica, intellettuale e d’espressione di tutti quei gruppi (etnici e culturali) che lottano costantemente per la propria dignità umana, per la possibilità di attuare il loro libero arbitrio e per il diritto di affermazione di sé stessi, onde evitare di cadere dalle mani di un padrone a quelle di un altro ancora.