La Catalogna rivendica l’indipendenza e la Sardegna sogna di emularla. Adriano Bomboi: “I catalani hanno persino l’energia nucleare, mentre i nostri indipendentisti non vogliono neppure investimenti sul gas ma pretendono di governare e far crescere l’economia”.
Introduzione di Veronica Matta
Gli eventi scatenati attorno al referendum per l’indipendenza della Catalunya coinvolgono in modo diretto lo Stato spagnolo ma, in forma indiretta, tutti i popoli che rivendicano il principio di autodeterminazione. Al clima “sovversivo” nei confronti dello Stato spagnolo, almeno dal punto di vista della legalità e formalità, si oppone il sentimento “vittimistico” dei catalani che verso Madrid nutrono un antico risentimento. La campagna elettorale dell’ex presidente Jordi Pujol de la Generalità de Cataluña nel 1983 si basava su 3 pilastri ventennali: “Atribuir la inversión en Cataluña a la Generalitat, ideologizzare l’educación y hacer de Madrid el enemigo. Su segunda legislatura coincidió con el ‘caso Banca Catalana’ y con la idea de que el pensamiento catalán era único”.
Attualmente in Spagna ci sono diverse correnti di pensiero sui fatti in corso, mentre in Sardegna gli indipendentisti guardano con simpatia a Barcellona senza considerare le grandi differenze che li distinguono.
La Catalogna intende raggiungere l’indipendenza dalla Spagna ma non dall’Europa, la ragione è di tipo economico e riguarda la gestione diretta delle risorse finanziarie, oltre alla questione identitaria, spesso strumentalizzata. E’ evidente che il governo di Madrid si opporrà alla perdita di oltre il 20% del PIL catalano.
C’è chi guarda questo conflitto come una partita a dama. Sembra che i catalani la stiano conducendo abbastanza bene, anche come strumento per sviluppare un’autonomia finanziaria simile a quella dei Paesi Baschi.
Nell’attesa di vedere il modo in cui Madrid e Barcellona riusciranno a trovare una soluzione, in Italia ci si interroga su quelle Regioni a statuto speciale come la Sardegna in cui vari movimenti indipendentisti auspicano l’indipendenza dallo Stato Italiano.
“Tra le regioni italiane solo la Sardegna ha la patente per diventare Stato indipendente” – così Enrico Mentana, direttore del tg La7, apre una pista, la sola a parer suo a poter intraprendere la via dell’indipendentismo. Certamente le parole di Mentana pongono degli interrogativi sul sentimento che i sardi provano nei confronti dell’Italia. E’ opportuno, a parer nostro, fotografare il nostro mondo indipendentista, solidale col popolo catalano. Un sentimento manifestato anche da Francesco Pigliaru, presidente della Regione targato Pd, spesso indicato dagli “indipendentisti” come “servo dei partiti italiani”.
Non tanto tempo fa facemmo una chiacchierata con Adriano Bomboi, esperto di indipendentismo e fondatore del portale “Sa Natzione”, per misurare lo stato di salute dell’indipendentismo sardo. Oggi invece osserveremo le differenze politiche e culturali tra il movimento catalano e quello sardo.
Ma davvero la Sardegna può sognare l’indipendenza come la Catalogna?
I sogni sono possibili quando poggiano i piedi sul pragmatismo: ad oggi la Sardegna ha un residuo fiscale negativo di oltre 4 miliardi di euro l’anno (dati CGIA Mestre 2015). Significa che lo Stato sottrae parte di questo importo dalle Regioni più virtuose, come Lombardia e Veneto, e rigira questa ricchezza ai sardi. Il tutto in nome dell’Elmo di Scipio.
In altri termini, l’Italia presenta gli stessi problemi della Spagna, con la differenza che noi sardi siamo la parte più assistita mentre i lombardo-veneti avrebbero tutte le ragioni, al pari dei catalani, per superare la legalità di questo parassitismo.
La serietà impone di ripensare l’indipendentismo sardo dalle sue fondamenta, che non possono riguardare solo la lingua e la cultura. Dobbiamo considerare infatti che l’esperienza autonomistica si è esaurita con la fase storica della pianificazione. Per intenderci, quella che ha prodotto la “rinascita”. Oggi abbiamo bisogno di una fase politica liberale che promuova la cultura della competitività e dell’impresa. Sfortunatamente, un indipendentismo nato in quella vecchia stagione politica, con il suo antiquato bagaglio ideologico, non comprende che l’assistenzialismo rappresenta il maggior ostacolo all’indipendenza.
Per avere un’idea dell’abisso culturale che ci separa dalla Catalogna, basti pensare che quest’ultima dispone persino di energia nucleare, mentre vari movimenti sardi si oppongono a qualsiasi investimento capace di ridurre i costi a carico del fragile tessuto produttivo sardo. Sia su fonti tradizionali che rinnovabili.
La cosa non deve stupirci, già dal 1971, nel saggio “The Anti-industrial Revolution”, Ayn Rand comprese che una delle nuove frontiere della crisi della sinistra sarebbe stata quella di promuovere un ambientalismo radicale, nocivo sia all’ambiente che allo sviluppo. Non a caso oggi buona parte dell’indipendentismo sardo, in linea col vecchio comunitarismo di Spiga, Masala e Cherchi, promuove sconclusionate teorie decresciste, dove il concetto di sostenibilità si trasforma in conservazione, immobilismo e autarchia da sussistenza. Ciò provoca in questi movimenti un rigetto di qualsiasi investimento (privato prima che pubblico), cosa di cui invece avremmo bisogno per limitare l’emorragia dei sardi che continuano ad emigrare. Ed ecco i no alle rinnovabili, no al metano, no alla Saras (che per inquinamento dovremmo monitorare meglio), no a nuovi alberghi (come se farne di nuovi significhi cementificare gli scogli) e no a tutto.
Lei comprende che in questa situazione l’indipendenza non solo diventa impraticabile ma impossibile, priva di credibilità. Perciò abbiamo bisogno di un profondo rinnovamento culturale.
Quindi la politica energetica dell’indipendentismo sardo è il segnale del suo ritardo?
Esattamente. Pensi allo slogan di un recente comunicato di varie sigle ambientaliste e indipendentiste: “basta alle servitù, la Sardegna produce già un surplus energetico”.
Questa affermazione ci fa comprendere che non immaginano alcuna crescita dell’economia sarda, che comporterebbe un innalzamento dei consumi interni.
Ma non solo, confondono investimenti con speculazioni foraggiate da spesa pubblica. Lei si immagina appena otto milioni di svizzeri che chiudono le loro centrali, che esportano in mezza Europa, chiamandole servitù solo perché producono più del loro fabbisogno interno? L’energia è un prodotto come altri. Chiederemmo a un sardo di non produrre più pomodori perché ne fa già abbastanza per i sardi?
L’equivoco nasce anche dall’ignoranza di confondere la capacità della potenza delle fonti con l’energia in sé: ad esempio oggi vorrebbero ridurre le fonti tradizionali esistenti in Sardegna per convertirne la stessa quantità in rinnovabili. Sarebbe come chiedere alla Volkswagen o alla ThyssenKrupp di produrre acciaio con le rinnovabili, quando con la potenza generata da queste ultime in realtà ci scalderebbero solo un panino al microonde. Ma noi dobbiamo mandare avanti falegnamerie, incrementare il manifatturiero e far volare aerei passeggeri. Non fra un secolo, oggi. Ecco perché le fonti fossili, anche se finiranno, necessitano di nuovi investimenti. Il gas non ci serve per accendere il forno di casa, il gas ci serve per avere centrali a turbogas che poi manderanno energia elettrica ai nostri forni elettrici. Bisogna comprendere che in questa fase storica le energie rinnovabili sono semplicemente integrative ma non sostitutive in termini di resa.
Un indipendentismo di governo, al pari di quello scozzese o catalano, ha il dovere di promuovere programmi concreti e non fantasie a base di visioni apocalittiche sull’inquinamento.
Come ci ricorda l’ing. Giampiero Borrielli, benché la Germania investa pure in rinnovabili, nel 2012 ha varato una nuova centrale a carbone di 2200 MW che emette, da sola, 9.732.360,00 tonnellate di CO2, ovvero 2.500.000 tonnellate in più rispetto a tutta la CO2 emessa dalle centrali termoelettriche presenti in Sardegna (praticamente nulla al confronto).
Hanno idee scopiazzate da sigle come il Kyoto Club Italia, nel quale si immagina la Sardegna come immenso parco sperimentale per rinnovabili, una pratica già attuata nel terzo mondo a base di sussidi proprio perché – attenzione – da quelle parti non esiste un vero e proprio tessuto produttivo da sostenere. Noi non dovremmo farci adescare da questi signori ma invitarli a fare le sperimentazioni a casa loro, qui abbiamo ben altri obiettivi.
In Sardegna abbiamo addirittura sindacalisti come Manolo Mureddu, aperti all’indipendentismo, ma consci del fatto che oggi quest’ultimo non ha ancora esposto concrete alternative occupazionali alle vecchie industrie energivore in crisi. Oppure politici autonomisti ma non indipendentisti, come Franco Meloni o Gianfranco Scalas, che giustamente si interrogano sul senso delle opposizioni allo sviluppo. E non stupisce neppure che uomini come Mauro Pili preferiscano evitare il proprio percorso politico con determinate sigle.
Su questa montagna di problemi pesa infine il limite della scarsa formazione culturale offerta dalla nostra pubblica istruzione. Il nostro capitale umano è scarsamente specializzato e quindi incapace di investire sia nella politica, per riformarla; e sia ovviamente, di comprendere le esigenze del mercato su cui investire.
1 thought on “Catalogna e Sardegna: indipendentismo diviso a partire dalla politica energetica”