di Sotera Fornaro
Mi hanno detto che non tornerai. Non voglio crederci, e perciò aspetto.
Ho atteso lunghi giorni dove sei scomparsa – mi han detto ancora: è stato come l’ingoiasse la terra. Era tra i fiori, incantata da un narciso. Il narciso è pericoloso, addormenta; è un fiore che dà visioni. Avrai forse pensato di essere fiore tu stessa, foglia d’erba flebile tra altre foglie piegate dal vento. Non una voce, un respiro, un grido. Sei andata via – scomparsa, invisibile.
E’ rimasto nell’aria un intenso profumo di narciso. Inebriante la sua magia. Io qui, notti nel prato, a sporcarmi di terra scura i capelli. Aspettavo. Ti scorgevo nella rugiada dell’alba, inseguivo l’illusione della tua risata. Imploravo tornassi. Poi mi mossi: velo nero come nube, compagna l’assenza, mi videro passare tutte le strade del mondo. Nel cuore solo il desiderio inestinguibile di te, negli occhi i tuoi occhi perduti. In quale luogo, in quale terra cercarti? In quale specchio d’acqua, in quale raggio di tramonto, in quale alba dalle dita di rosa nel cielo non più sgombro dei miei pensieri affannosi? Chiedevo – ‘dove sei’ – rispondeva l’eco, e sulla riva lo scherzare delle onde. Imploravo ancora: torna, ma era implorare il silenzio. Con l’orecchio sulla terra bagnata, mi sembrava di sentire il mio nome. Mi chiamavi? Lontano, da dove?
Ho toccato la tua invisibilità. Abbracciavo il ricordo di te. Ti stringevo, e le braccia si piegavano su se stesse. Abbracciare te era abbracciare l’aria. Figlia, figlia mia perduta. Figlia rubata. Figlia sventurata. Cosa ti hanno fatto?
Ho picchiato con le nocche contro il muro dell’invisibile, ho graffiato i suoi angoli inscalfibili.
Il mio lutto profondo disseccò le sorgenti; senza frutto le spighe; non un filo di fumo s’alzava dai focolari. Non un sacrificio, per gli dei spietati. Arsura e incendio. Crudele perpetua l’estate.
Qualcuno ti aveva rapito a me, e qualcuno doveva sapere, qualcuno pagare. Solo seminando la fame avrei avuto la risposta. Alla fame, si sa, sono sottomessi uomini e dei. Ed io sono la dea della fame e del grano. E tu sei mia figlia, e non so più dove sei. La vendetta non basta.
Quale dolore può spingere un dio a farsi uomo? Il dolore di una madre che d’improvviso non è più madre, ecco, lo può. Da dea sono divenuta donna, una vecchia. Mi sono resa balia di ogni bambino, ho cullato pianti ed asciugato bave e lacrime. Cercandoti in ogni vagito, invano. Tu non c’eri più, non per me, invisibile.
Il mio velo è nube nera che non smetto; sarà la mia veste e la mia maschera. Il mondo deve sapere e ricordarmi: la donna in nero per la figlia perduta.
Il tempo è un’idea presuntuosa. Da quando sei scomparsa, nessun’ora scandisce più il mio tempo. Il tempo dell’assenza è costante lento consumarsi, attimo immenso l’attimo del dolore, estenuante avvicinarsi alla soglia. Oltre quella soglia, so che ci sarai. E ci ameremo, come un tempo.
Mi han detto dopo che non fu voragine di terra a rapirti; la crepa nella quale sei scomparsa fu la prepotenza di un uomo. Ti ha voluto, e ti ha preso. Non si è curato della tua fragilità. Non ha sentito il tuo spezzarti. Sulla terra sei diventata terra. Anima mia recisa, violentata, affogata. Ti ha voluto come vuole un uomo. Io non ebbi il tempo di raccontartelo, di metterti in guardia, di difenderti. Mi hanno detto altro – ma non c’è più da ascoltare.
Il dolore ritorna. Morde col suo becco d’avvoltoio, poi fugge. Ali spiegate di disperazione.
Io qui da sola, ad aspettare. Tu invisibile, nell’invisibile mi perdo. Lì qualsiasi dio si perderebbe. Nella cieca silenziosa assenza. Per sempre.
(L’inno omerico a Demetra, VI sec. a C., racconta della dea a cui Ade, l’’Invisibile’, il dio dell’ al di là, rapisce la figlia per renderla regina delle ombre).