Tutti i viaggiatori dell’Ottocento descrivono una Sardegna ricca di boschi in cui la vegetazione lussureggiante avvolge ogni anfratto, ogni spazio. Tutti i viaggiatori del Novecento, al contrario, raccontano di un’isola arida e spoglia di risorse.
Cosa è accaduto di rilevante e drammatico tra i due secoli da produrre una dicotomia così forte tra le due Sardegne descritte? Ne parla Fiorenzo Caterini nel suo saggio “Colpi di scure e sensi di colpa – Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi” (Carlo Delfino Editore) attraverso una narrazione che ha il rigore scientifico del ricercatore e la passione di chi, quotidianamente, opera sul territorio per la tutela ambientale.
L’autore, Ispettore della Corpo Forestale e Vigilanza Ambientale, Comandante della Stazione Forestale di Luogosanto (OT) e acuto antropologo, partendo dai toponimi di matrice vegetale della geografia sarda – traccia inequivocabile della presenza di specifiche presenze arboree – approfondisce come in un’inchiesta penale le vicissitudini che si sono susseguite nell’Isola e che nel corso del tempo l’hanno relegata in un ruolo marginalizzato (ultimo posto per estensione del manto boscoso a livello nazionale) o, secondo i parametri dello studiosi di sistemi globali, in una posizione semi-periferica: non colonia ma neppure area centrale.
Un “passaggio” che la storia dell’isola ha scandito con precisi e documentati avvenimenti e che la stessa storia – perlomeno quella ufficiale dei “vincitori” – ha tramandato fino ai giorni nostri con modalità mistificatorie.
La Sardegna – descritta dagli antichi come un’isola quasi mitologica per l’abbondanza di risorse naturali, culla di una delle civiltà più originali e misteriose, depositaria di una magnificente monumentalità espressione di una terra fertile e prosperosa – fu, fin dagli albori della storia dei popoli del Mediterraneo, una terra appetibile di materie prime da depredare.
Il processo di attenzione alle risorse sarde inizia con i Romani e, quindi, più significativamente con gli Spagnoli. Ma è con l’annessione al Regno dei Savoia e l’avvento dei Piemontesi che l’isola subisce un’accelerazione dello “scotennamento”, letteralmente, del proprio sistema boschivo.
L’economia della Sardegna, fino ad allora basata su una fruizione dei beni naturali in cui l’uomo era parte integrante degli stessi in un ciclo virtuoso, viene scardinato con l’abolizione degli ademprivi (le terre comuni) che, pubblicizzata come “modernizzazione necessaria”, sovverte un’economia definita arretrata con la fallace promessa di una maggior cura dei boschi.
L’Editto delle Chiudende del 1820, che di fatto istituì la proprietà privata nell’isola, scalzò infatti quello che era una sorta di bene collettivo, il bosco, lacerando il rapporto tra popolazione e territorio.
I printzipales, la classe abbiente (non a caso il termine, tutt’ora in uso, deriva dal latino princeps = principe), si impadronirono dei terreni recintandoli “a s’afferra afferra” (come cantò l’aedo Melchiorere Murenu con un’immagine che descrive, quasi in forma onomatopeica, la voracità con la quale avvenne la privatizzazione delle terre) espropriandoli alle comunità locali e attivando il prodromo dell’economia capitalista.
Le terre subirono quindi un processo comune a molti popoli: sottratte alle comunità divennero un “non luogo” il cui destino si separò da quello degli uomini e delle donne che fino ad allora se ne erano presi cura. A nulla valsero le proteste e le vere e proprie rivolte popolari delle quali rimane ampia e documentata testimonianza giuridica e letteraria.
I boschi, fonte primaria di energia, di materiale da lavoro, di risorse alimentari, che avevano nutrito l’antica civiltà dei nuragici, vennero letteralmente consumati con una pianificazione metodica di spoliazione.
Solerti funzionari piemontesi mapparono le risorse naturali dell’isola e per il “superiore interesse nazionale” violarono l’integrità della risorsa bosco estirpandolo e facendolo entrare, con la stessa Sardegna, come mero prodotto dell’economia di mercato.
Gli interventi di taglio, sistematici e scientifici, furono persino ammantati di giustificazioni legate alla sicurezza: al bosco coacervo di banditi venne data una connotazione negativa che ne validava lo sradicamento. I documenti testimoniano che fu tra il 1820 ed il 1883 che il manto boschivo dell’isola si ridusse di quattro quinti raggiungendo la massima intensità di disboscamenti nel 1847. Il “feroce vandalismo” praticato sui terreni aprì quindi la strada all’unica attività possibile: la pastorizia.
Con la diminuzione della selvaggina, la drastica riduzione degli allevamenti suinicoli e “l’invasione” delle pecore, la Sardegna si piega così alle esigenze degli imprenditori laziali per la produzione di pecorino con l’insediamento di imprese lattiero casearie (di fatto espressione di una filiera monocolturale coloniale) che hanno modificato persino il paesaggio isolano trasponendolo nella classica cartolina iconografica con greggi al pascolo e nuraghe sullo sfondo.
Il saggio di Caterini indaga, ricostruisce, analizza e spiega tutto ciò. Non si limita ad una mera ricostruzione dei fatti ma, con un approccio interdisciplinare, ci riconsegna la verità ribaltando i luoghi comuni di un’isola che gli stessi sardi credono essere da sempre desertificata e di economia “pastorale per inclinazione naturale” che vive di allevamento ovino dalla notte dei tempi. L’indagine ci svela che la Sardegna, crocevia di malversazioni, abbandonata a sé stessa, privata delle sue foreste per fornire di traversine le ferrovie di mezza Europa, è stata di fatto soggiogata, ridotta a landa deserta senza alcuna voce in capitolo sulla scelta del proprio destino.
L’isola perde l’occasione di optare per un’economia, diremo oggi, “ecosostenibile” per divenire terra di incontro di potenti speculatori pubblici e privati che la usano per lottizzazioni urbanistiche, industria pesante, servitù militari, smaltimento dei rifiuti tossici. Obbligata alla sudditanza dalle spietate leggi di mercato del mono-prodotto latte è costretta a rinunciare al controllo delle proprie risorse, del proprio patrimonio ambientale e paesaggistico.
L’autore non tralascia, inoltre, il fenomeno dei cambiamenti climatici e di un’economia di mercato in cui il fuoco è diventato una “scorciatoia per accedere alle risorse del territorio” sottolineando il processo di mercificazione che ha fatto dell’ambiente, e della foresta in primo luogo, il moderno campo di battaglia tra società in cui le comunità più forti sfruttano quelle più deboli.
Ci ricorda, infine, che il rapporto umano che abbiamo con la realtà si chiama ambiente, che esso è anche un’espressione sentimentale in assenza della quale non può esserci nessuna conoscenza.
La cura e tutela dell’ambiente è in stretta relazione con la nostro futuro e con le opportunità che decidiamo di concedergli affinché ve ne sia uno ancora possibile.
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