‘Dal cibo in prosa, alla scienza per il cibo e la sopravvivenza‘ desidera ripercorre alcune tappe nella diversa interpretazione del cibo, partendo dalle suggestioni che hanno ispirato gli intellettuali della Grecia arcaica e della Roma imperiale, fino a spingersi alla percezione del pericolo alimentare visto dalla comunità contemporanea, per un verso come autentica minaccia culturale in grado di erodere usi, tradizioni e consumi alimentari tipici per effetto della perdita di biodiversità e dei cambiamenti climatici; per l’altro come reale fattore di rischio per la salute e per lo spazio che occupiamo.
Dalla difficoltà del consumatore di scegliere tra una molteplicità di offerte, traggono sviluppo ricerche e politiche riguardanti l’aspetto strettamente nutrizionale del cibo, contribuendo così alla nascita dei regimi dietetici1.
A livello culturale il cibo diventa strumento in grado di trasmettere informazioni sul sistema sociale e sul significato implicito della comunicazione sociale, decifrabile attraverso l’analisi dei rituali e dei comportamenti collettivi 2 .
Se la scienza è capace di spiegare nel suo linguaggio i fatti di cui è a conoscenza, nel linguaggio etico e filosofico gli stessi fatti si prestano a molte interpretazioni. Con un approccio non scientifico, ma solo di tipo filosofico non è possibile giungere ad un’interpretazione univoca della rappresentazione del cibo nell’immaginario e nella quotidianità delle popolazioni del mediterraneo, nelle diverse epoche. D’altra parte, come sosteneva Demetrio Neri nel suo libro ‘La Bioetica in laboratorio‘ 3, «i dati della scienza possono sgombrare il campo dai disaccordi dovuti semplicemente a errate o insufficienti informazioni. Bisogna però stare attenti a non usarli come surrogato delle decisioni etiche», tenendo presente che la biologia, per esempio, non riconosce il termine “persona”, “individuo”, “essere umano”. Sono termini che in biologia vengono usati in modo diverso e con significati diversi «da quelli che tali termini hanno in etica, in diritto, e nel linguaggio comune». Per Poulain 4 , e anche Fischler 5 , infatti, le questioni legate all’alimentazione devono essere affrontate secondo un approccio metodologico plurale e multidisciplinare, capace di includere l’insieme degli elementi che lo compongono e che vada oltre il «microcosmo dell’individuo».
Il cibo percepito come paradigma e concezione di vita, come stato d’animo e voce dell’io interpretato attraverso la solennità e il fascino dei frammenti dei Lirici Greci che hanno ispirato l’ermetismo di Salvatore Quasimodo, riflette il fermento e l’esigenza di rinnovamento della civiltà greca del periodo arcaico, tra la metà dell’VIII, fino al VI secolo a. C. Mentre tra le isole egee e le coste dell’Asia Minore si afferma la società dinamica della Polis che minaccia un’aristocrazia perdente sul piano storico, ma in lotta per conservare status sociale e privilegi, il cibo nel linguaggio poetico introduce nuove suggestioni lontane dall’epos omerico. Per gli storici nasce quasi come diretta conseguenza un modo di fare poesia identitaria, indipendente dalla classe sociale di chi la produce: plurale nei canti di lotta civile attraverso la passione politica di Alceo di Mitilene, espressione di categorie mentali distinte e differenti con Archiloco e Saffo, corale con i poeti e musici confluiti dai luoghi più lontani nella Sparta arcaica del Peloponneso. Numerosi sono i frammenti gastronomici di varia estensione di Alcmane di Sardi composti da veri e propri cataloghi di cibi e di vini. Sopravvissuti tuttavia ad un contesto cronologico e territoriale poco conosciuto, sono stati oggetto di copiose discussioni. Un papiro egiziano, pubblicato nel 1863, oggi conservato a Louvre (E 3320 = fr. 1 P.), ha tramandato parti leggibili e ben conservate di canti affidati all’esecuzione di un coro di fanciulle. Dotato di uno spiccato senso della natura, Alcmane diventa noto e imitato dalla letteratura europea per le descrizioni paesistiche (89 P.), e la trasmissione dei suoi gusti gastronomici dove arriva ad autodefinirsi scherzosamente «onnivoro» con l’evocazione fiabesca del cibo nel cerchio della danza delle Baccanti: «al lume delle fiaccole, un grande tegame viene riempito di latte di leonessa e poi se ne fa il formaggio» (fr. 37 D.)6 L’impatto emotivo che l’autore attribuisce al rituale della spartizione e condivisione del cibo acquisisce un significato simbolico e sociale più che di soddisfacimento di un bisogno alimentare.
In un passaggio delle note introduttive a ‘I Lirici greci dell’Età arcaica‘ 7, il grecista – traduttore e latinista Enzo Mandruzzato spiega perché «di Alcmane non sorprende di sapere poco. Visse in quella Sparta elegante che fu anteriore a quella ‘involuta’, dove l’individuo spariva nella collettività; ciò che è vero, ma è anche vero che la personalità restava più forte dell’individuo e che non vi si respirava la cupezza delle società collettivistiche del nostro mondo».
Da un punto di vista antropologico, ciò che il cibo ha rappresentato nell’immaginario delle popolazioni, nell’epoca arcaica e classica sia in Grecia che a Roma, non sempre si è tradotto in un diverso rapporto con il cibo e in pratiche agricole diverse da quelle adottate nella madrepatria dei primi colonizzatori greci. Una molteplicità di studi scientifici sugli usi, consumi, sulle tradizioni alimentari, sulla diversa funzionalità e tipologia degli strumenti da cucina, consentono la comprensione del legame che i coloni hanno stretto con il proprio territorio di origine. E’ il caso del lavoro prodotto da un gruppo internazionale di ricercatori, partito nel 1974, con il ritrovamento nel santuario rurale di Pantanello di numerosi resti di piante conservate in condizioni anaerobiche nei terreni paludosi e argillosi del Metaponto sulla costa meridionale d’Italia in Basilicata. Sofisticate analisi chimiche e archeobotaniche condotte su reperti vegetali risalenti al periodo, tra il VI e I secolo a.C, hanno permesso di ricostruire abitudini nutrizionali, dieta e modelli agricoli adottati da un gruppo di antichi coloni greci. (Costantini L., 1980). Dalle informazioni ottenute attraverso lo studio multidisciplinare condotto in collaborazione con il team di ricerca dell’ICA – Institute of Classical Archaeology The University of Texas ad Austin negli States (Costantini L., J.C. Carter, 1994), è emerso che le popolazioni di migranti stanziali nella fertile pianura del Metaponto avevano ricostruito, e riadattato, gli stessi modelli agricoli per perpetrare culti e tradizioni del territorio nativo.
E’ interessante notare come questa vasta indagine, pubblicata in una serie multi-volume intitolata ‘The Chora of Metaponto‘, pur coprendo un periodo di tempo che va dalla preistoria all’impero romano, ha permesso di fare luce sull’antica economia rurale del Sud Italia. Sotto il profilo sociologico, l’articolata operazione di ricostruzione delle organizzazioni sociali, dei modi e delle pratiche che influenzavano stili di vita e consumazione del cibo, diventa tanto più complessa quanto più il contesto storico da osservare è lontano 8. Nella civiltà romana per esempio non v’è traccia del «dionisismo» come lo intendevano i greci, della sacralità del bere insieme in quanto atto liturgico capace di stringere un legame con i convitati. A Roma il simposio si sostituisce al banchetto più vicino nel significato all’epoca omerica e alla spartizione delle carni sacrificali servite insieme alle bevande. In un recentissimo lavoro pubblicato sulla rivista Antiquity, gli archeologi dell’Università di Cambridge nell’ambito di una collaborazione intrapresa con l’Università di Southampton titolare del Progetto Portus, hanno portato alla luce importanti informazioni sulla dieta delle classi sociali della Roma imperiale del II secolo d. C.
Le analisi isotopiche condotte sui reperti vegetali, animali e umani ritrovati nell’antico Portus Romae, crocevia di fiorenti scambi commerciali come generi alimentari, animali selvatici, marmi e beni di lusso provenienti da tutto il Mediterraneo, hanno dimostrato che i lavoratori di Tenuta del Capo impegnati in faticose operazioni di facchinaggio consumavano carne, pesce, grano, olio d’oliva e vino importati dal Nord Africa, come gli individui di alto rango sepolti nel cimitero di Isola Sacra. I risultati della ricerca hanno considerato due orizzonti temporali consecutivi compresi, tra gli inizi del II e il V secolo d. C, quando con la discesa dei Vandali e il Sacco di Roma del 455 d. C. si registra un drammatico cambiamento dell’organizzazione economica e politica, forse come conseguenza della rottura degli scambi commerciali tra Roma e il Nord Africa.
Illustrazione 3: ‘Living and dying at the Portus Romae’, (Tamsin C. O’Connell, et al., Antiquity. 2019). Courtesy: Sheila Hamilton-Dyer (SH-D ArchaeoZoology, 5 Suffolk Avenue, Shirley, Southampton SO15 5EF, UK). Copyright: Portus Project https://doi.org/10.15184/aqy.2019.64
La coordinatrice della ricerca del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Cambridge, Tamsin O’Connell, chiarisce che, «verso la fine della metà del quinto secolo» si assiste ad un cambiamento delle abitudini alimentari delle popolazioni locali. «Da una dieta ricca di proteine animali, grano, olio d’oliva, pesce e vino importati dal Nord Africa, si passa a qualcosa di più simile a una ‘dieta contadina’, composta principalmente da proteine vegetali». I lavoratori portuali addetti allo scarico merci sostengono dunque lo stesso carico di lavoro, ma alimentandosi con fagioli e lenticchie, mentre il grano diviene abbondante e onnipresente.
Pertanto, si comprende la dimensione del contributo che la ricerca scientifica può offrire tanto alla sopravvivenza e sostenibilità della vita sulla terra, quanto alla comprensione dei costumi e delle abitudini alimentari appartenute a civiltà millenarie del Mediterraneo. Come un ciclo che si ripete, cambia il contesto socio-economico, cambiano dunque le gerarchie dei bisogni alimentari con un’incidenza profonda nell’organizzazione della vita quotidiana, riproponendo perciò l’alimentazione come un «fatto sociale totale» (J.P. Poulain). Le tesi fondamentali contenute nell’opera principale dello studioso Jack Goody 9 , sono rivolte proprio alla comprensione delle cause per le quali i significati del cibo hanno assunto determinate forme nelle società moderne. Per l’autore è una pluralità di fattori ad incidere sulle modalità espressive del processo di alimentazione. I cambiamenti intervenuti sulla produzione alimentare in seguito alla rivoluzione industriale, alla meccanizzazione dei processi produttivi e allo sviluppo tecnologico, ha permesso che si formasse una cucina industriale.
L’impatto di questa trasformazione ha rappresentato un cambiamento irreversibile dello stile culinario a livello globale, permettendo il livellamento anche delle diete alimentari sia nel mondo industrializzato che nei paesi più arretrati. L’autrice Maria Elena Gazzotti nell’articolo scientifico ‘Il cibo e l’alimentazione nel percorso analitico della sociologia‘ 10 , rileva che la definizione «delle caratteristiche essenziali della cucina domestica evidenzia il fatto che la successiva evoluzione della distinzione tra essa e una cucina professionale discende dall’incremento del processo di gerarchizzazione dell’apparato sociale e dallo sviluppo del fenomeno della statalizzazione dell’organizzazione pubblica. Ciò giustifica il divario tra mondo più evoluto e realtà meno sviluppata, che acquista ancor più senso nel momento in cui ci si sofferma a considerare il condizionamento esercitato dalla presenza di società con tradizione orale, che sono escluse, proprio perché prive di scrittura, e quindi della trasmissione delle ricette, dalla possibilità di raffinare il modo di preparazione del cibo e di dare origine ad un’alta cucina».L’interpretazione del processo di maturazione di un mutamento nello stile alimentare di una popolazione, nella contemporaneità si arricchisce di aspetti biologici, ecologici e sociali. «La contemporaneità – spiega Gazzotti – diventa il campo di esplorazione e un autore come Poulain centra la propria attenzione sugli effetti omogeneizzanti della globalizzazione, da cui discende, per contrasto, il recupero di una forte rilocalizzazione, con la sua tendenza alla valorizzazione dei particolarismi identitari».
Come cambia l’interpretazione, l’assunzione e i modelli di produzione del cibo secondo i condizionamenti del proprio tempo, allo stesso modo mutano le connessioni dei comportamenti dell’uomo nella contemporanea civiltà occidentale di fronte a trasformazioni storiche di portata epocale. Consumo e individualismo associati a dispersione e precarietà caratterizzano l’uomo moderno, mettendo a rischio l’esistenza di una società sempre più frantumata, arrivata al limite della dissoluzione. L’idea che la scienza sia capace di fornire verità utili per ogni attività dell’uomo, in grado di influenzarne anche le abitudini alimentari e garantire, per esempio, che un cibo sia sicuro e salutare, viene scardinata e sostituita nella «società liquida» 11 da scorciatoie di pensiero alla base del ragionamento motivato che invece stimola e gratifica.
Di conseguenza si assiste al moltiplicarsi di notizie controverse, leggende metropolitane, bufale, junk e fake news. Contenuti che generano volume, più che valore, che fanno leva sull’emotività. Usati spesso come strumento di lotta politica, o per alimentare profitti di vario genere all’interno di un mercato che ammette pornografia del dolore, violenza generata dallo scontro ideologico o la speculazione senza scrupoli di stati di reale bisogno delle persone, spesso, in situazioni di fragilità emotiva, quando malate. Nessun argomento viene in realtà privilegiato: dagli attentati terroristici al dramma Xylella, passando per frutta, ortaggi e superfood che promettono ‘la cura’, il rimedio capace di ‘guarire’ da disturbi probabilmente di origine alimentare con improbabili ‘anamnesi’ sulla salute mentale del povero malcapitato. Il condizionale è d’obbligo. Perché spesso ‘la cura’ viene preceduta da ‘una diagnosi’. Servizio completo, insomma. E tutto gratuito dietro l’acquisto di un apposito kit di integratori sostitutivi di un normale regime dietetico. Basta un click o un’intensa chiacchierata con l’influencer giusto, non esperto in materia. Ma che ugualmente propala consigli salutisti spacciati per attività volontaria, solidarietà pelosa e passione disinteressata per la natura, l’ambiente e il benessere dei suoi abitanti (e chissà, per un giro d’affari milionario aziendale).
Così, semplificare e appiattire la complessità dei fenomeni diventa regola o semplice prassi agevolata dai pregiudizi e dalla verosimiglianza con altre notizie, al fine di orientare consensi. Se per assurdo un decisore politico fosse messo nelle condizioni di scegliere sulla base solo dell’opzione più o meno condivisa, anche se falsa o destituita di fondamento scientifico, come cambierebbe il nostro modo di alimentarci? Che impatto avrebbe questa scelta sulla salute di uomini, animali e piante? Come cambierebbe la percezione del consumatore sulla sicurezza alimentare? Allo stesso modo potrebbe considerarsi scelta ripetibile e sostenibile tra gli interventi migliori e appropriati suggeriti dalla scienza? Potrebbe competere di fronte alla potenziale carenza di cibo come conseguenza di fattori economici, guerre, tensioni geopolitiche e cambiamenti climatici?
Il centro studi Newman & Fletcher (UK)in un’indagine approfondita condotta, nel 2017, sulla qualità delle notizie dei consumatori di nove Paesi comunitari ha rilevato che le persone non operano una distinzione categorica tra notizie «false» e «reali». Bensì sono portati a cercare quelle informazioni che supportano un loro modo di pensare, un loro credo. Un fenomeno che coinvolgerebbe le fasce più giovani della popolazione e quelle in condizioni di marginalità economica e sociale. Sentimenti e stati di bisogno intorno cui ruotano gli interessi di gruppi di potere senza scrupoli che speculano su disuguaglianze e povertà.
Questa deriva, sebbene iniziata prima della nascita dei social media, coinciderebbe più o meno con l’avvento dei nuovi media digitali, nei primi anni 2000. È stato osservato in particolare che le ‘cattive notizie’ si diffondono tanto di più quanto sono caricate di forti emozioni negative come rabbia o paura, creando la combinazione perfetta per la costruzione di una narrativa ostile. Per questo motivo, durante le crisi politiche, gli utenti dei social media non solo condividono contenuti da fonti attendibili, ma anche forme estremistiche, sensazionalistiche, cospirative, fraudolente e di altro tipo non comprovate dai fatti. Il fenomeno tuttavia, per quanto soggetto ad un attento monitoraggio da parte delle autorità nazionali e internazionali, rappresenta la minoranza dell’intera popolazione campione analizzata.
Secondo l’ultimo sondaggio condotto da Eurobarometro, i soggetti che tra gli europei godono dei più alti livelli di credito riguardo l’informazione sui rischi da alimenti, sono proprio gli scienziati (l’82%, in aumento rispetto al 73% del 2010), le organizzazioni dei consumatori (79%) e gli agricoltori (69%), seguiti dalle autorità nazionali (60%), dalle istituzioni UE (58%), dalle ONG (56%) e dai giornalisti (50%). Meno persone hanno fiducia in supermercati e ristoranti (43%), industrie alimentari (36%) e celebrità, blogger e influencer (19%). Quando la sicurezza alimentare è un dato di fatto, non vi è una singola preoccupazione che predomina in tutti i Paesi UE. Tuttavia emergono tre questioni con maggiore frequenza in 20 o più Stati membri: in Italia soprattutto preoccupa l’uso improprio degli antibiotici, ormoni e steroidi negli animali da allevamento (44%), in Spagna e Francia impensieriscono i residui di pesticidi negli alimenti (39%) e nell’area dei Balcani invece gli additivi alimentari (36%). Ad ogni modo gli europei sembrano meno preoccupati di prima su questioni come gli OGM, mentre questioni nuove come le microplastiche negli alimenti appaiono per la prima volta sul radar della sicurezza alimentare.
Il ricercatore e professore in Biologia dei sistemi complessi e analisi di dati biometrici presso la Temple University di Filadelfia(USA), Enrico Bucci, contattato da mediterraneaonline.eu, spiega come “una delle principali fonti di cattiva scienza, che può arrivare persino alla pubblicazione, è il pensiero motivato, la tendenza cioè ad argomentare in difesa di una posizione prestabilita. Questa posizione – aggiunge -, può essere assunta per interesse o per semplice ignoranza preconcetta, ma quando in questa trappola cadono i ricercatori, il risultato può essere devastante, perché gli scienziati sono davvero bravi ad argomentare in difesa delle proprie posizioni (paradossalmente, riescono a difendere il falso molto meglio degli ignoranti). Un esempio lampante per questo tipo di comportamento tra i ricercatori – continua Bucci – si ha nel caso del glifosate12, un erbicida grazie alla cui introduzione si è assistito ad una vera rivoluzione in agricoltura.
Nonostante la sua bassa tossicità, questa molecola, come accadde in passato per il DDT, è diventata l’icona negativa degli ambientalisti, tanto che oggi qualunque ricercatore può trarre vantaggio per la sua carriera e per le sue tasche dal produrre evidenza, non importa quanto veritiera, per la sua nocività. Il caso forse più estremo – puntualizza – è quello di Christopher Portier, colui il quale, da attivista ecologista contro i pesticidi, è riuscito a farsi nominare presidente del panel IARC (International Agency for Research on Cancer) che ha messo sotto indagine il glifosate, così dirigendo il lavoro dei 17 esperti che lo componevano fino a cambiarne in senso carcinogenico la classificazione, firmando poi un contratto che gli ha fruttato 160.000 dollari con uno studio legale interessato a far causa alla Monsanto”.
Il docente allarga poi la riflessione, soffermandosi su un lavoro pubblicato dalla rivista Scientific Report, ripreso per altro dalla stampa nazionale, dove si afferma che nei ratti il glifosate avrebbe effetti sulle generazioni future, causando una serie di problemi molto seri alla salute. “Ad un livello più basso – fa notare Bucci -, si colloca la vicenda del gruppo che ha pubblicato un lavoro fallato per dimostrare che la tossicità del glifosate non sarebbe immediata, ma si manifesterebbe nelle generazioni discendenti da quelle esposte; ricevendo, anche in questo caso, un’immediata notorietà internazionale, questo gruppo si è probabilmente assicurato un radioso futuro. A spese, naturalmente, della verità scientifica, come abbiamo dimostrato con il gruppo SETA”. SeTA, acronimo di Scienze e tecnologie per l’agricoltura, è un gruppo informale che ha raccolto, dalla metà del maggio scorso, oltre 1.100 adesioni dal mondo scientifico, istituzionale e civico in una petizione a tutela della comunità scientifica e contro la disinformazione.
«Il caso Xylella», ha ricordato Marco Cappato, leader e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, «è un esempio da manuale di come l’ambiguità da parte di alcuni mezzi d’informazione e dei rappresentanti istituzionali abbia alimentato credenze fasulle che hanno già arrecato danni immensi all’agricoltura e all’economia della Puglia». Secondo le ultime stime Coldiretti, gli effetti devastanti di questa epidemia scoperta in Puglia, nel 2013, ha coinvolto migliaia di ettari di uliveti e provocato danni per oltre un miliardo di euro. Come avvalorato dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale, e confermato da un’ulteriore aggiornamento sulla valutazione dei rischi realizzato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), non esiste ancora una cura in grado di eliminare una batteriosi che avanza di 2 chilometri al mese, con evidenti ricadute economiche ed occupazionali per l’agricoltura pugliese dove insistono ampie aree dedicate alla coltivazione di olivo, mandorlo e ciliegio, piante sensibili alla patologia vegetale insieme ad una vasta gamma di altre specie erbacee e da frutto. Il progetto finanziato dall’Unione europea (UE), XF-ACTORS (Xylella Fastidiosa Active Containment Through a multidisciplinary-Oriented Research Strategy), interamente dedicato a questa emergenza fitosanitaria, procede a passi da gigante sul fronte della prevenzione, della diagnosi precoce e del controllo della malattia, allo scopo di contenere i danni economici e salvare posti di lavoro. «Attualmente non esiste un trattamento efficace per curare le piante infette o affette da Xylella, quindi grandi sforzi vengono rivolti in misure di prevenzione e controllo di nuovi focolai», ha dichiarato la coordinatrice del progetto.
Maria Saponari, dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle piante in Italia. «Questo», si legge nella dichiarazione pubblicata nel documento dal titolo ‘Race to save EU’s crops and landscape from lethal bacteria‘ 13 , «include la rimozione della fonte di infezione e il controllo degli insetti vettore che sono i principali responsabili della diffusione del batterio da pianta a pianta». La ricerca genomica avviata con il progetto europeo, ha fornito importanti informazioni sulle modalità di interazione di Xylella fastidiosa (XF) con le piante ospiti. Questo ha consentito una migliore comprensione dei geni responsabili della suscettibilità e delle caratteristiche associate alla resistenza al patogeno da quarantena, insieme alla comprensione della comunità di microrganismi coesistenti nelle piante malate. In particolare il lavoro svolto nell’ambito del progetto, ha consentito di identificare cultivar di olivo geneticamente resistenti al batterio, consentendo alle autorità di revocare il divieto di piantare nuovi alberi nelle aree infette e agli agricoltori di ricostruire il patrimonio produttivo olivicolo in Salento.
Sono in fase di test l’applicazione di strategie innovative e sostenibili per controllare e ridurre la diffusione degli insetti che trasmettono la batteriosi. In parallelo, proseguono una serie di studi per comprendere meglio il ciclo di vita e il comportamento alimentare di questi insetti, al fine di gestire, controllare e fermare la crescita della popolazione attraversi approcci integrati. Nuove tecniche di telerilevamento si aggiungono tra gli strumenti utili dei ricercatori per identificare alberi infetti da Xylella prima che i sintomi diventino visibili ad occhio nudo. Il progetto ha inoltre contribuito all’ottimizzazione e all’armonizzazione della diagnostica in campo e in laboratorio. I risultati del lavoro hanno infine portato ad aggiornare normative comunitarie in materia di valutazione dei rischi e all’elaborazione di linee guida sulla gestione della fitopatia.
Attraverso gli studi genetici è stato possibile non solo conoscere i meccanismi di attacco di alcuni organismi patogeni per le piante di difficile contenimento, ma anche gli ingranaggi molecolari che hanno portato alla domesticazione di moltissime specie vegetali alla base della nutrizione umana e animale. Da una collaborazione tra diversi ricercatori, tra i quali i Soci della Società di Genetica Agraria (SIGA) Luigi Ricciardi e Stefano Pavan dell’Università di Bari, Concetta Lotti dell’Università di Foggia (SAFE) e Riccardo Aiese Cigliano della Sequentia Biotec, è scaturito il report scientifico dal titolo: ‘Mutation of a bHLH transcription factor allowed almond domestication‘ 14 , pubblicato sul numero della prestigiosa rivista Science, del 14 giugno scorso. Lo sia apprende da un’ampia comunicazione riservata ad un lavoro che ha implicato l’eliminazione di composti di difesa dal sapore sgradevole o addirittura tossici attraverso la domesticazione delle specie agrarie. Il caso specifico è riconducibile al mandorlo (Prunus dulcis Miller (D. A. Webb)), le cui specie selvatiche producono semi amari e letali in modeste quantità a causa dell’accumulo di amigdalina, un glucoside in grado di rilasciare cianuro a seguito dell’ingestione.
Lo studio riporta il completamento del genoma di mandorlo. Le informazioni genomiche, corredate da analisi di associazione, espressione genica e funzionali, hanno permesso di comprendere i meccanismi molecolari che hanno portato alla domesticazione di questa specie. In particolare è stata identificata una proteina, un fattore di trascrizione della famiglia basic helix-loop-helix (bHLH), che promuove l’espressione di due geni essenziali del pathway biosintetico dell’amigdalina. La sostituzione di un singolo amminoacido all’interno dello stesso fattore di trascrizione, in grado di inficiarne l’attività biochimica, ha permesso all’uomo di selezionare individui dal seme dolce e dunque edibile. I risultati dello studio caratterizzano uno degli eventi più antichi della storia dell’agricoltura, considerato che la domesticazione del mandorlo è avvenuta presumibilmente già nel primo Olocene (circa 10.000 anni fa) nella regione della Mezzaluna Fertile. Inoltre, essi forniscono informazioni di grande interesse per il miglioramento genetico del mandorlo e per studi sulla biologia di metaboliti il cui accumulo è regolato da fattori di trascrizione bHLH. «Questa mutazione – spiega la professoressa Concetta Lotti, associata di Genetica agraria al Dipartimento di Scienze agrarie, degli alimenti e dell’ambiente – consiste nel cambiamento di una sola base nella sequenza del fattore di trascrizione sarebbe determina il cambiamento di un solo aminoacido nella sequenza della proteina corrispondente».
I risultati scaturiti dagli studi di sequenziamento del DNA del mandorlo e di isolamento del gene responsabile dell’amarezza, rivestono notevole rilevanza sia perché forniscono informazioni relative alle basi genetiche della domesticazione del mandorlo sia per il futuro miglioramento genetico della drupacea, specie che è coltivata a livello mondiale su quasi 2 milioni di ettari e diffusissima nelle regioni meridionali d’Italia, determinando grande interesse anche da parte dell’agro-industria. Per il Dipartimento di Scienze agrarie, degli alimenti e dell’ambiente dell’Università di Foggia la ricerca è stata appunto condotta dalla professoressa Concetta Lotti e dalla dottoressa Francesca Ricciardi (ex dottoranda afferente al Dipartimento di Scienze agrarie), mentre per l’Università Aldo Moro di Bari è stata invece condotta dai professori Luigi Ricciardi e Stefano Pavan e dalla dottoressa Rosa Mazzeo. È la prima volta che il Dipartimento di Scienze agrarie, degli alimenti e dell’ambiente ‘finisce’ su Science (considerata dai ricercatori di tutto il mondo una specie di ‘vangelo laico’ della scienza, della sperimentazione e dell’innovazione tecnologica) per una propria ricerca, un risultato a suo modo storico che la professoressa Lotti commenta così: «Condivido con tutto il Dipartimento questo importante risultato che testimonia l’eccellenza scientifica della nostra ricerca e del nostro Ateneo».
Lo sviluppo di moderne tecniche applicate al miglioramento genetico vegetale, ma anche alla diagnosi di moltissime patologie umane, comunica l’approccio interdisciplinare che le biotecnologie hanno ricoperto nel corso di una storia che ha seguito sostanzialmente l’ordine di avanzamento delle innovazioni e di nuove scoperte: dai primi processi fermentativi di epoca sumerica ed egizia, fino almeno ai primi anni ’70, quando vengono sviluppate importanti tecnologie che prendono il nome di ingegneria genetica, manipolazioni genetiche o tecnologie del DNA ricombinante.
Il ruolo fondamentale ricoperto da queste nuove metodologie consente oggi di parlare di scienza al servizio del cibo tale da restituire una vita normale a persone affette da gravi malattie metaboliche legate per esempio all’incapacità di assorbire singoli aminoacidi, o alcuni composti parte della generale composizione di un alimento (glucidi, proteine, lipidi, fibre, vitamine, micro e macro elementi etc.) Tra i casi più emblematici si ricordano la fenilchetonuria, malattia rara a trasmissione genetica, e la celiachia in persone geneticamente predisposte. In entrambi le condizioni patologiche un alimento, diverso da un prodotto che in Italia non rispetta le linee guida approvate nella revisione attuale dalla Sezione per la dietetica e la nutrizione del Comitato tecnico per la nutrizione e la sanità animale (AFMS), può diventare incompatibile con la vita stessa di queste persone.
Più in generale, spostando l’osservazione sul piano della sicurezza alimentare nel mondo, un cibo non sicuro sotto il profilo igienico e sanitario può causare oltre 200 malattie diverse, alcune molto gravi, colpendo 600 milioni di persone ogni anno. Sono i dati comunicati, a giugno, in occasione della ‘Giornata Mondiale della sicurezza degli alimenti‘ proclamata lo scorso anno dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel mondo quasi 1 persona su 10 si ammala dopo aver assunto cibo contaminato, e altrettante 420.000 persone ne muoiono ogni anno. I bambini di età inferiore a 5 anni sono i più sensibili, il 40% si ammala, mentre 125 000 sono decessi all’anno. Le principali cause di contaminazione sono di natura batterica, virale, parassitaria o da sostanze chimiche. Di conseguenza rallenta lo sviluppo socioeconomico mettendo a dura prova i sistemi sanitari e danneggiando le economie nazionali, il turismo e il commercio.
Il valore globale del commercio di generi alimentari rappresenta un giro d’affari per 1,6 trilioni di dollari, pari a circa il 10% del commercio mondiale annuo complessivo. Alcune recenti stime indicano che l’impatto degli alimenti non sicuri sulle economie dei Paesi con un reddito medio-basso, rappresenta un costo da circa 95 miliardi di dollari americani misurabile in termini di perdita di produttività ogni anno. Le autorità per la sicurezza alimentare possono gestire i rischi per la sicurezza alimentare lungo l’intera catena alimentare, anche in fase di emergenza, mentre i singoli Paesi dispongono della facoltà di rispettare gli standard internazionali stabiliti dalla Commissione del Codex Alimentarius. Ovvero il gruppo eterogeneo che condivide la responsabilità per la sicurezza alimentare con governi, enti economici regionali, Organizzazioni delle Nazioni Unite, agenzie di sviluppo, organizzazioni commerciali, gruppi di consumatori e produttori, istituzioni accademiche e di ricerca e società del settore privato, così da permettere una cooperazione a cascata a livello globale, regionale e locale.
La collaborazione tra e con tutti i soggetti interessati è necessaria ad ogni livello e in tutti i settori all’interno di un governo e oltre i propri confini territoriali, specie quando si combattono epidemie provocate da malattie trasmesse da alimenti. Perché la sicurezza alimentare è un affare di tutti, ma soprattutto una responsabilità condivisa.
Riferimenti bibliografici
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Link: https://www.setanet.it/wp-content/uploads/2019/05/Glifosate_Skinner_et_al-review11.pdf
13 – Race to save EU’s crops and landscape from lethal bacteria, Agriculture & food, Horizon 2020, 13 giugno 2019, Project N°: 727987 . Link: https://www.xfactorsproject.eu/; https://cordis.europa.eu/project/rcn/206027/factsheet/en © European Union, 2019
14 – Mutation of a bHLH transcription factor allowed almond domestication, Science, 14 Giugno 2019: 1095-1098
3 thoughts on “Dal cibo in prosa, alla scienza per il cibo e la sopravvivenza”