Articolo di Cinzia Isola
Portovesme – Roma
Matteo è una delle cinque per cento facce del Sulcis che soffre. Lo incrocio nella piazza presidiata dagli operai in lotta, mi chiede subito se sono giornalista. Dovrei spiegare troppe cose inutili alla causa, ad essere sincera. Dico frettolosamente sì: per sfuggire più in fretta possibile ai miei dubbi, più che alla sua domanda. Allora, solo allora, Matteo mi mette tra le mani un po’ di carta fotocopiata. Non semplice carta, una lettera. Tante parole per raccontare un po’ di vita, in quella che invece resterà lettera morta. Quattro pagine, scritte a mano. Storie di vita sopravvissuta , sempre in bilico tra presente e futuro.
La lettera è indirizzata a Giorgio Napolitano, vecchio comunista quando esisteva un partito comunista. Ma poi, adottato dal suo ruolo istituzionale. Relegato dentro la dorata gabbia presidenziale alla forzata pace dei sensi e del buon senso politico. Leggo subito le prime righe: « Gentilissimo Sig. Presidente, sono un cittadino Italiano, un “operaio” di un impresa…». Passano poche righe e lo ritrovo ancora: «…sono un “operaio”». Mi chiedo perché un termine così semplice, immediato e concreto necessiti di enfasi. Rispondo che, semplicemente, Matteo non sa che le virgolette si usano per vestire le parole di ironia, in maniera allusiva e metaforica. O, come suggerisce l’Accademia della Crusca, per prendere le distanze dalle parole che si stanno usando.
Del resto, come avrebbe potuto ironizzare sulla sua condizione? Dissociarsi dal suo ruolo professionale, poi: impossibile. Insieme ai suoi compagni di lavoro, sfidando la fredda notte romana, urlava frasi di consapevolezza. Estrema e radicale: «È ora, è ora, potere a chi lavora». Orgoglio, fierezza formato slogan. E al presidente “migliorista”, ricorda un proverbio: «La brocca scende in fondo al pozzo, fino a quando non si rompe». Non sono minacce, eppure l’extrema ratio sembra chiara all’orizzonte.
In merito alla vertenza Alcoa, alla conseguente protesta degli operai, credo di avere le idee chiare: la priorità, ora, è salvaguardare i lavoratori. Ma come è possibile guardare al futuro senza un progetto di sviluppo alternativo, previa bonifica, del territorio? È tardi per maledire la multinazionale del dolore. Se servisse ad evitare futuri asservimenti dei sardi, potrebbe addirittura essere salutare il loro ritiro. Se non fosse che andranno ad inquinare altrove. Se non fosse che sfrutteranno ancora altra terra, altre vite.
Ho le idee chiare dopo aver vissuto un pezzo della protesta di ieri. E altri pezzi, in passato, di questa difficile storia dove la multinazionale prima sfrutta e poi abbandona migliaia di lavoratori. In libero mercato, ma grazie agli aiuti di Stato. Ho in testa il ritmo cadenzato dei caschi che sbattono su resistenti sanpietrini. Il rumore dei petardi che scoppiano: quasi addosso, se sono troppo curiosa.
«Non molleremo mai», provano a convincersi fino a notte fonda. Profumo di spaghetti e tonno aleggia nella tendopoli che ha ricoperto il recinto della protesta. Un fuoco, animato da legni di fortuna, riscalda il cerchio operaio stretto intorno ad un lingotto di alluminio. Una veglia funebre, con tanto di ceri. C’è freddo, tristezza, rabbia. Molta stanchezza. Qualcuno stempera l’attesa con l’alcool, coperta liquida ed effimera per proteggersi dal gelo, dalle frustrazioni, dall’incertezza.
Ripenso a Matteo, alla sua lettera al Presidente della Repubblica. E c’è una cosa che non mi è chiara: perché chiedere aiuto a Giorgio Napolitano? Non era forse l’attuale premier Silvio Berlusconi a promettere soluzioni pronto spot per tutti i mali dell’Isola, Alcoa compresa, solo un anno fa? E il presidente della Regione Ugo Cappellacci? Non ha mai sconfessato le promesse elettoral-propagandistiche del suo padrino politico e ancora oggi è così ignoto che nel bel mezzo di una delicata vertenza, sotto i riflettori di tutti i media, per “Il Messaggero” si chiama Guido.
E allora, vorrei dire agli “operai” (stavolta sì, tra virgolette) che hanno creduto a Berlusconi: l’impegno suo e del suo delfino sono il minimo sindacale per salvare la faccia. Hanno vinto le elezioni anche grazie alle facili promesse di politici irresponsabili quanto bugiardi. Quelli che ora parlano di «trattativa difficile», «faremo il possibile». Gli stessi che, un anno fa, la facevano semplice per strappare il voto agli Operai. E’ bastato mentire per spacciare la certezza che la Sardegna sarebbe tornata a sorridere. Beh, forse sono distratta: finora, non ho visto molti operai ridere.