Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizevetter: ‘Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale’, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto, ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri…
(L. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic)
L’uomo ha sempre percepito la morte come una questione universale e un destino a cui non è possibile sottrarsi, la grande domanda cui in qualche modo, prima o poi è necessario rispondere. Tante sono state le risposte elaborate nel corso dei secoli per attribuire un senso all’interrogativo della morte, risposte che evidenziano tutte il carattere eminentemente pratico della questione: dal momento in cui si assume una posizione o un’altra, non si sostiene soltanto una convinzione teorica, ma si fa proprio un atteggiamento esistenziale.
L’interpretazione della morte, intesa come atto dell’esistenza, e del morire, come processo che interessa l’intero arco dell’esistere e che si conclude con la cessazione del vivere, è strettamente dipendente dai fattori che determinano la nostra cultura. In altre parole, tra morte, morire e vita esiste un legame inscindibile, ovviamente influenzato dalla cultura dominante.
Tuttavia, in una cultura come la nostra, dominata e ossessionata dal concetto di “qualità della vita” le questioni relative alla morte e al morire appaiono irrilevanti e sconvenienti, quindi sono da evitare o rimuovere e di fatto costituiscono un argomento fortemente negato nella società attuale dove tutto sembra doversi congelare al momento della prima gioventù.
Salute e benessere sembrano costituire, infatti, un imperativo categorico, un dovere da perseguire a ogni costo. Quando poi assumono valore di assolutezza al punto da ritenere insignificante e indecente una vita priva di bellezza e di sanità globale, essi trasformano in criterio normativo supremo il concetto di “qualità della vita”. E’ evidente come in questa cultura di riferimento non sia possibile spazio alcuno per una considerazione in termini di valore di quelle esperienze umane problematiche come la sofferenza, la vecchiaia, il morire e la morte, esperienze rispetto alle quali si mette in moto un vero e proprio processo di occultamento-rimozione (P. Aries) o di tabuizzazione (G. Gorer), che esclude dall’universo del linguaggio e del pensiero dell’uomo tutto quanto possa riferirsi alla nozione di precarietà della vita.
Morte e morire, in tal senso, costituiscono un dato socialmente incongruente, scomodo e rappresentano per il sentire e il vivere odierno, incentrato sul sistema economico, produttivo e tecnologico, un fattore di disturbo che va rimosso dalla coscienza collettiva e individuale.
La salvezza, quindi, non si fonda più sull’elaborazione rituale delle esperienze “limite” di morte, ma sul loro assoluto rifiuto. La vita diventa un dogma, un imperativo categorico intorno al quale organizzare l’esistenza, mentre la morte, ciò che delimita la vita, viene demonizzata come evento concreto e resa impensabile e indicibile come discorso. Perciò se risulta difficile poter considerare la morte come “un sacro trapasso, un passaggio verso un’altra forma di esistenza, essa è solo un buco nero che si apre davanti ai nostri piedi quando meno ce lo aspettiamo: l’unica scappatoia consiste nella sua negazione e nella sua rimozione” (Carotenuto, 1997).
La sconvenienza della morte e del morire delegittima, dunque, ogni possibile discorso su di essa, anche come eventuale incentivo alla vita; preoccuparsi del dover morire è scandaloso o quantomeno inutile in ordine al proprio vivere. Non si esagera se si afferma che la morte oggi viene considerata come un elemento “blasfemo”, “grottesco” e “orribile”; G. Gorer, B Kalish. K.L. Vaux la definiscono una forma di “pornografia” sostitutiva dell’ormai superato tabu del sesso, tant’è che anche gli atteggiamenti che si assumono e si mettono in atto nei confronti della morte sono caratterizzati dal non-vedere, dal non-fare domande: in sostanza, nella cultura odierna, programmata per il successo e quindi per l’esaltazione di ogni forma di vitalismo, la morte e il morire sono confinati alla sfera del silenzio e la loro gestione spetta a persone e luoghi specializzati.
La morte è, dunque, un evento da nascondere come fosse un fatto vergognoso, “inquinante”, scandalo insopportabile dietro cui scorgere solamente una forma di sofferenza, sia essa fisica o emotiva, ma pur sempre inutile ed eccessiva. In ultima analisi consideriamo il morire un fatto assurdo, che desta orrore.
Eppure si tratta di una tappa della vita che merita riconoscimento, in quanto né è il momento culminante, il coronamento sostengono alcuni, ciò che le attribuisce senso e valore. Tra tutti gli esseri viventi l’uomo rappresenta la sola specie animale cui la morte è onnipresente durante tutta la sua vita; la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere e spesso ancora crede alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti: in breve, la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura (L. V. Thomas).
Nonostante non sia possibile ignorare che un domani moriremo, tuttavia, ci ostiniamo a vivere come se la morte riguardasse quegli “altri” che non siamo certo “noi”. La nostra morte non ci appare come la deduzione logica di una legge universale, è piuttosto una presenza incombente che accettiamo, evitiamo o respingiamo nella misura in cui la riteniamo un passaggio necessario o una brutale interruzione dell’unica cosa che ci sta a cuore: vivere e vivere il più a lungo possibile, anzi, vivere sempre. Eppure la morte, di per sé non dovrebbe costituire affatto un problema per l’uomo dal momento che, tra tutte le imprevedibili situazioni che la vita di ciascuno porterà con sé, proprio la morte è l’unica certezza. In realtà il problema consiste proprio in questo suo essere un limite irrevocabile, che non è stato oggetto di scelta. Ignorarlo, rifiutarlo, disprezzarlo o cadere nella disperazione dipenderà dalla visione della vita che si possiede: l’interrogativo sul senso della morte rimanda cioè al più grande interrogativo sul senso della vita.
Da più parti è stata affermata l’impossibilità di una tanatologia o filosofia della morte: la morte, del resto, non costituisce un’esperienza di cui poter parlare: la relazione con la morte non può mai essere oggettiva, ma sarà sempre in relazione esistenziale. Trattare della morte in modo oggettivo, quindi impersonale, significherebbe infatti, aver scoperto un modo di oggettivarla, ma la morte in sé non ci offre alcun dato fenomenologico ed è, inoltre, evidente che come oggetto d’indagine rimane fuori della portata delle nostre esperienze. Essa è l’in-oggettivabile e l’in-descrivibile, che non può essere separato dalla relazione che l’uomo ha con se stesso, per cui il soggetto che indaga risulta intimamente coinvolto nell’oggetto stesso dell’indagine.
In altre parole, parafrasando Vladimir Jankélévitch non è possibile parlare della morte “alla prima persona”: dovremmo, in questo caso, oltrepassarla e immaginarci al di là di essa, perché ci è preclusa la possibilità di farne esperienza. D’altra parte la morte “alla terza persona” non costituisce un problema: il “si muore” o il “tutti muoiono” è un evento che non ci riguarda, non ci interpella, dal momento che lo registriamo senza esserne coinvolti. Il punto veramente cruciale è piuttosto la morte “alla seconda persona”, quella della persona cara, evento cui non ci si rassegna, che provoca al contrario la nostra ribellione perché è la morte che più assomiglia alla propria e che più ce la rammenta, senza tuttavia essere la propria.
Dunque il problema della morte delle persone care è più essenziale e tragico di quello della propria morte, perché si tocca con mano che si è interrotto un legame, ma contestualmente, nonostante la rottura, si continua ad essere uniti, a quell’essere scomparso. Il dramma sta proprio in questa contraddizione che dal punto si vista logico reclama una soluzione, pena la caduta nell’assurdo dell’intera esistenza.
Gabriel Marcel sostiene che la morte è un mistero, non un problema. Il mistero a differenza del problema coinvolge e compromette la persona che si interroga e riflette, risulta intellegibile ma non esprimibile nei termini del linguaggio concettuale. L’unica possibilità per parlarne è affacciarsi sul crinale della morte e contemplarla nelle due prospettive: la prospettiva al di qua della morte e quella al di là della morte.
Scriveva A. Camus: “In realtà, non c’è esperienza della morte. In senso proprio, non è sperimentato se non quello che è stato vissuto e reso cosciente”. Quando parliamo del “morire”, ne parliamo come se si trattasse di un evento, o di un atto vissuto, il quale però definisce e si definisce attraverso un “prima” e un “poi”, irriducibili l’uno all’altro. Questo “prima” e questo “poi” non sono sospesi nel vuoto, ma s’iscrivono nella continuità di una storia personale, nella soggettività storica. Una continuità che ci interroga: c’è in essa un soggetto che è morto dopo essere stato vivo? Oppure, la morte non è, propriamente, l’annientamento di questa soggettività capace di vivere il “poi” e di collegarlo al “prima”?
Ipotesi questa che troviamo già in Epicuro: “Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiedono nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più” (Epistola a Meneceo, 124 e ss.).
Se, dunque, l’esperienza della morte esiste, essa non fa parte del nostro mondo e noi non possiamo né comunicare né entrare in relazione con essa. Esiste, tuttavia, un ambito che fa eccezione: possiamo parlare dell’esperienza, la nostra esperienza, del vedere la morte altrui. Ma quale è il suo contenuto? In altre parole, la morte dell’altro da noi è in grado di fornirci delle informazioni rispetto a ciò che è “morire”? Certo, qualcosa accade davanti a noi: un evento, il più irrevocabile di tutti, si produce; pochi istanti prima qualcuno era là con noi e, fosse anche solo attraverso lo sguardo o la semplice pressione della mano, potevamo comunicare con lui. Improvvisamente ci ritroviamo davanti un cadavere, incapace di risponderci. La morte altrui è nello specifico l’esperienza della rottura definitiva, netta e irreversibile della comunicazione. Quel corpo che era vita e parola si trasforma in un “involucro” inerte e muto. L’essere che viveva “prima” è là, inutile cercarlo da qualche altra parte nel nostro mondo, eppure non è più presente. Davanti a noi solo il cadavere è presente e porta ancora i tratti della persona che abbiamo conosciuto, verosimilmente amato.
Dinanzi alla morte altrui il primo movimento dell’animo è quasi un soggiacere all’evidenza di questo annichilimento. La stessa nostra desolazione sembra implicare in noi la persuasione d’una sventura ultima, irreparabile e a questo sentimento spontaneo per la perdita della persona cara si associa tacitamente quello della nostra caducità.
Nonostante ciò, facciamo un’esperienza che è sì esperienza della morte, ma non del “morire” stesso come evento che accade al morente. La sola parola vera e adeguata, in questo caso pare quella suprema di Amleto: “the rest is silence”. L’idea che la morte dell’altro ci fornisce rispetto a ciò che sarà la nostra propria morte non è che molto marginale.
Sapendo che morremo e non avendo alcuna esperienza diretta di ciò che significhi morire, non possiamo fare a meno di tentare di “riempire” questa certezza vuota di un qualsiasi contenuto sperimentabile direttamente. Anche se la morte non si fa mai conoscere “di persona”, noi non rinunciamo a cercare di farci una semi-esperienza di essa, impadronendoci di tutto quello che ci sembra suscettibile di prefigurarla: l’esperienza quotidiana del sonno, per esempio, può essere intesa come un’immagine direttamente anticipatrice della morte. Il sonno, propriamente parlando, infatti, non è un’esperienza e, forse, è proprio per questo che si è reso così adatto a figurare la morte. Esiste, è vero, un torpore ancora cosciente che non è ancora sonno vero e proprio, ma che lo precede e l’annuncia. Tra questo torpore e il sonno propriamente detto, sussiste, dunque, una distanza radicale, come quella che separa l’agonia dalla morte. Altra prefigurazione della morte è costituita dal processo di invecchiamento: invecchiare, infatti, vuol dire avvicinarsi a morire; il progressivo ridursi delle attività nell’anziano, la diminuzione delle sue facoltà, la sua ridotta capacità di investire la sua affettività in relazioni costituiscono una prefigurazione della morte intesa come lo sciogliersi, il venir meno di ogni relazione e di ogni scambio con il mondo. L’analogia, evidentemente, è valida se consideriamo la morte nel senso della rottura e dell’estinzione; se al contrario le attribuiamo il significato della liberazione, allora non sarà certamente la vecchiaia ad offrirci un’immagine di essa, ma, al contrario, l’analogia più densa di significato giungerà dalla giovinezza, meglio ancora dalla nascita che è apertura al mondo.
Anche nella prospettiva più confortante, comunque, la morte conserva il suo carattere di dramma. Agonia del resto significa combattimento, lotta tra l’istinto naturale di vita e l’inesorabile imminenza della fine. La morte “grande”, la “bella” morte, sono trasfigurazioni operate dal desiderio di esorcizzare questi aspetti: in realtà, si muore sempre da soli, perché il morire è intrasferibile e si muore sempre sperimentando il dolore del distacco dalla vita. Ciò non toglie che il morire con qualcuno, per qualcuno possa rendere meno doloroso, anche se non meno netto, questo strappo che l’uomo avverte e riconosce come radicale. All’opposto della morte grande, oggi troviamo la cosiddetta morte “piccola”, un dato irrilevante nell’insieme della società, occultato o minimizzato. La privatizzazione e l’ ospedalizzazione del morire, la convinzione che la morte migliore sia quella che avviene “senza accorgersene” o senza soffrire, la riduzione o scomparsa del lutto sono tutti segnali di una familiarità sempre più scarsa con questo evento, che risulta imbarazzante in una società che ha perso i grandi orizzonti di riferimento. Con chi sta per morire è sempre più difficile trovare le parole per congedarsi, dal momento che sarebbe necessario avere un’idea chiara sulla destinazione del viaggio, ma spesso si conosce soltanto ciò che attraverso la “partenza” si perde; per di più la morte dell’altro è uno scomodo richiamo all’inevitabilità della propria morte, che spesso si tenta in tutti i modi di rimuovere.
In realtà la morte di cui realmente moriamo non è né “grande”, né “piccola” né “dolce” ma possiede delle note essenziali, certe e universali. E’ profondamente seria, come lo è la vita: banalizzarla, svalutarne la radicalità, significherebbe banalizzare la vita stessa. E’ sempre al singolare, ciascuno lo sperimenta in modo proprio ed esclusivo e la sperimenta da solo, senza possibilità di essere sostituito o accompagnato. E’ perentoria nella misura in cui al cospetto di un’alternativa radicale: l’affermazione del nulla o la credenza nell’eternità. E’ inconfutabile perché della morte possediamo la certezza assoluta, trattandosi di un’evidenza che appartiene alla vita, indipendentemente dal fatto di aver visto o no altri morire. Infine è inesprimibile in quanto mistero pieno di incognite che richiede di essere rischiarato, seppure non spiegato, dalla luce della filosofia e della religione.
La morte, dunque, rimane per tutti un dramma sempre incombente e sconvolgente, un mistero impenetrabile: dramma e mistero insieme che segna il punto culminante dell’esistenza, rumore di fondo di ogni azione umana e grande contraddizione a quell’anelito all’infinito che ci portiamo radicato dentro: “Mors ultima linea rerum est” (Orazio, Epist. I,16). Incerti riguardo alla morte, ci troviamo come chiusi in un cerchio: da un lato, la certezza che abbiamo del morire, del nostro morire, è vuota, non significante, vista la nostra incapacità di darle un qualsiasi contenuto di esperienza o di semi-esperienza. D’altra parte la scelta che operiamo nelle prefigurazioni della morte implica una qualche idea preliminare di ciò che esse devono prefigurare. Se noi ignorassimo del tutto quello che è il morire non sapremmo, infatti, che il sonno o la vecchiaia sono immagini della morte.
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