È buio, il fuoco divampa in attesa della luce. La notte infittisce, il freddo s’intensifica. È dicembre, il mese del mistero. E proprio quando ormai il giorno sembrava lasciare il passo alla notte, le genti dell’urbe romana celebravano la festa del Sol Invictus, il Dio Sole, il 25 del mese. Si accendevano dei fuochi rituali per onorare la forza crescente del sole, il Dio Invincibile, la sua rinascita.
Dal 17 al 23 invece, si celebravano i Saturnali, il culto in onore di Saturno, che prevedeva la decorazione di alberi e porte, un’usanza di cui si trova traccia nelle feste cristiane, ne sono un esempio gli addobbi natalizi.
Il vecchio e nuovo s’accompagnano. In Sardegna, il 13 dicembre, viene acceso un copioso fuoco, Su Fogadoni, in onore di Santa Lucia, Messaggera di Luce, santa Protettrice della Vista. “L’accensione del fuoco è una tradizione di origine pagana che, per il fenomeno culturale e spirituale del sincretismo religioso, si è mantenuta anche in ambito cristiano”, spiega Emanuela Katia Pilloni, esperta di Tradizioni Popolari, archeologa, insegnante e assessora alla Cultura del comune di San Sperate, suo paese natio.
E fino a qualche decennio fa, in particolare nel suo paese, che si distingue per il forte senso di appartenenza alle proprie radici culturali e tradizioni, non era usanza scambiarsi i regali per Natale, ma per la festa di santa Lucia e della Befana, che nel nord Sardegna era denominata anche festa dei Los Tres Res, in onore dei Re Magi. Ancora oggi i sansperatesi, per Santa Lucia, si scambiano i regali.
Spiritualità cristiana e pagana s’incontrano anche per il Natale. Secondo alcune fonti storiche, l’imperatore Aureliano avrebbe fatto cadere il giorno della festa natalizia nel giorno in cui si celebrava la festa del Sol Invictus, la rinascita del Sole. La ratio? Cristo è Luce per la spiritualità cristiana.
La notte del 24, nota come Vigilia di Natale, a San Sperate si festeggia ancora la nascita di Gesù Cristo con un cenone accompagnato dall’accensione di un fuoco di lungo respiro, perché capace di restare acceso per giorni e giorni, in segno di buon auspicio. Tale usanza è denominata Su troncu de cena, giacché si cercava un tronco di legno che alimentasse la fiamma il più a lungo possibile. “Un elemento anch’esso di origini pagane”. Coratella e carne d’agnello erano, e sono ancora oggi, il piatto forte della cena del 24, il cenone, un’usanza che nelle società agropastorali si lega con i festeggiamenti del rientro dei pastori dalla transumanza.
Dopo il cenone ci si recava in chiesa per la Messa di Mezzanotte. “Una messa molto sentita e frequentata”, accompagnata da spari di fucile e balli. Tant’è che in alcuni documenti ecclesiastici, già nel 600, si raccomandava ai sacerdoti di tenere a bada i fedeli per arginare eventuali comportamenti (spari di fucile) che creassero confusione e che nulla avevano a che fare con la spiritualità cristiana. Erano anch’essi un retaggio delle feste pagane. Alle donne in stato interessante si consigliava di partecipare alla messa della Mezzanotte per scongiurare eventuali anomalie del feto.
La magia dell’intervallo di tempo che intercorre tra il Natale e l’Epifania ha origine nelle credenze pagane intorno alla festività del solstizio d’inverno, un periodo di passaggio rappresentato dal dio Giano, o dio del passaggio, raffigurato con due volti, uno orientato al passato e l’altro al futuro, per indicare la chiusura di un ciclo e l’apertura di un altro.
Solo in quei giorni le donne guaritrici, bruscias, che facevano ricorso alla magia, brebus (parole magiche, preghiere) e sa mexina de s’ogu (rituale sardo contro il malocchio), ormai anziane, potevano tramandare il proprio sapere, quelle conoscenze che dovevano restare segrete. Un vero e proprio passaggio di consegne. La rivelazione del segreto corrispondeva alla trasmissione del potere. “A San Sperate le pratiche magiche potevano essere tramandate solo a una donna che fosse mediana fra tre sorelle”.
Il solstizio d’inverno era considerato un momento di passaggio e comunicazione da una dimensione spazio-temporale all’altra, si credeva dunque che i morti potessero comunicare con i vivi. Era quindi usanza, così racconta Grazia Deledda nella sua opera, “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna”, lasciare nel caminetto, alle anime dei defunti che in quell’occasione sarebbero tornati, un bicchiere di vino e cibo.
In quest’idea di contatto e apertura fra mondo divino e umano s’inserisce la credenza che chi fosse nato nella notte di Natale avrebbe portato un bene tale da poter salvaguardare dalle disgrazie sette case (numero di tradizione magica) del vicinato, e che nella sua vita non avrebbe perso né denti, né capelli. Anche incontrare in questo periodo un uomo o una donna con la gobba avrebbe portato una grande fortuna.
La notte di Capodanno, inoltre, si faceva un gioco speciale, che consisteva nel gettare dei chicchi grano, o riso, in un bicchiere d’acqua, e poi farli girare fino a creare dei piccoli mulinelli. “Il modo in cui cadevano, la velocita e altri elementi, avrebbero predetto il futuro di una giovane coppia o di una famiglia”.
Quand’ero bambina. Pilloni fin da piccola si chiedeva perché la nonna nel fare gli auguri di Natale dicesse Bona Paschixedda. Tale interrogativo al tempo non aveva trovato risposta, “si dice così…”,aveva replicato la nonna. Una curiosità che non venne meno col passare degli anni, ma che trovò risposta nei suoi studi e ricerche. “Per i cristiani la festa per eccellenza è la Pasqua, non il Natale, quest’ultimo non può essere altro che una Pasqua in tono minore, una festa propedeutica a quella vera. Ecco il perché del termine Paschixedda”, conclude l’archeologa..