Donne albanesi
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…E’ inutile richiamare gli oscuri
scorpioni a quest’ora.
Perché sono caduta. Sono da tempo caduta!
Uccisa sono caduta.
Una rossa ferita che solo io coltivo.
Oh! Troppo rumorosamente sono caduta.
Insepolta sono caduta.
Su questa terra sono caduta.
E nessuno vede dove cade il mio grido.
Nessuno lo sente.
Nessuno sa dove si trova.
Dove si perde il mio urlo…
(Mimoza Ahmeti, Il mio grido)

La crisi economica mondiale si è abbattuta come una scure sulle giovani democrazie dell’Europa dell’Est e del Sud che arrancano in una seria recessione. Vittime predestinate della recessione sono state e sono le donne, già provate dagli anni della transizione, durante i quali i tassi d’ingresso e d’uscita dal lavoro (maschile e femminile) si ripartirono iniquamente a loro grande svantaggio e oggi ulteriormente colpite dall’impatto della grande crisi che investe i loro paesi. In molti sono stati espulsi dal mondo del lavoro, ma tra questi il numero delle donne è senza dubbio superiore. Il crollo, infatti, si è abbattuto sì sul mondo della finanza e insieme su assicurazioni ed edilizia, settori a vocazione prevalentemente maschile, ma anche su servizi e commercio, dove gran parte delle maestranze sono donne.

Uno dei paesi più poveri in Europa, con livelli altissimi di criminalità e disoccupazione è l’Albania, con le strade che pullulano di clochard e mendicanti, un numero di suicidi che cresce in maniera esponenziale, le numerose proteste di piazza dei tanti disoccupati e l’esodo di massa di una parte importante di essi. Fenomeni che testimoniano come povertà e disoccupazione permangano e costituiscano la fonte principale di preoccupazione per il paese, nonostante siano trascorsi circa venti anni di transizione ed economia di mercato. Oltre alla grande povertà in senso economico e alla carenza di opportunità (di lavoro, di studio/formazione, di socializzazione per i giovani e per le donne), è la situazione della donna ad essere uno degli aspetti più problematici della società locale e questo risulta evidente anche ad un primo contatto con il paese. Le donne si trovano tra i gruppi più svantaggiati e rientrano nella categoria dei poveri strutturali; inoltre lo status economico e sociale delle donne all’interno della società non ha registrato grandi cambiamenti durante gli ultimi venti anni, nonostante gli sforzi compiuti dalle organizzazioni civili per produrre dei miglioramenti. Non è certamente un caso che proprio in Albania, da molti anni, la stampa pulluli di messaggi che spronano il femminismo a far sentire la propria presenza nella società.

In molti si chiedono a cosa sia imputabile un tale dislivello tra la condizione maschile e quella femminile nel paese, dato che il livello d’istruzione delle donne in Albania è notevolmente superiore a quello degli uomini. Nonostante i sociologi sostengano che ci troviamo di fronte a quel fenomeno ribattezzato “maschilismo balcanico” che vede le donne vicino al focolare ad accudire figli e a occuparsi delle faccende domestiche, (fenomeno che sembrerebbe inculcare un senso di tacita ammissione della propria inferiorità persino nelle donne stesse), ci pare altresì doveroso segnalare la presenza di quei fattori che a partire dagli anni Novanta hanno mutato profondamente la società albanese. Durante gli anni del comunismo si è registrata una notevole emancipazione femminile (al punto che alcuni lo considerano come il maggiore vantaggio del regime di Hoxha). Altri sostengono che, proprio durante il comunismo, la donna si sia trovata a gestire un sovraccarico d’impegni: oltre che il fulcro dell’andamento della famiglia, si trovò ad essere anche lavoratrice sfruttata in un sistema spietato. Ciò che è certo è che intorno al 1989 il livello di occupazione delle donne in Albania era tra i migliori in Europa.

Il postcomunismo sembra inventare, invece, altri poteri. Troviamo giusta l’affermazione di Helen Fischer, studiosa del femminismo e del genere, la quale sostiene che il postcomunismo ha creato nuove forme di discriminazione e di soggettività femminile. Dopo le riforme degli anni Novanta, infatti, le donne sono state le prime a perdere il lavoro. Imprese e fabbriche, dove le donne rappresentavano la percentuale maggiore della forza lavoro, sono state chiuse per la loro inefficienza e di conseguenza il tasso di disoccupazione femminile è cresciuto rapidamente.

In seguito al crollo del comunismo il ruolo della donna entra, dunque, in crisi. L’Albania fin dai primi anni Novanta cade in balia di una serie di trasformazioni socio-economiche che stravolgono la società: ha inizio una forma di privatizzazione selvaggia che determina la disoccupazione una parte cospicua della popolazione fino ad allora alle dipendenze dello stato. Molte imprese statali chiudono o mutano radicalmente attività. Il mondo del lavoro non rispetta più alcun principio di diritto sindacale e più adatti a sopravvivere in un tale sistema si dimostrano gli uomini. Intanto la società va incontro ad una importante crisi di valori e ad una maschilizzazione accelerata. Tutto ciò determina il ritorno della donna al suo ruolo tradizionale e la induce a cercare e ritrovare nella dipendenza famigliare una certa sicurezza sociale. I sociologi concordano, nel ritenere la migrazione interna come un ulteriore fattore in grado di contribuire notevolmente all’aumento della disoccupazione femminile. Le donne provenienti da ambienti rurali, infatti, sono spesso poco preparate per un’assunzione in città, diventando in questo modo inevitabilmente delle disoccupate, o delle casalinghe.

Diverse ricerche statistiche mostrano un quadro preoccupante della condizione femminile in Albania. Come testimoniato dalle analisi dell’Instat (l’Istituto Nazionale Albanese per le statistiche) la povertà colpisce prevalentemente le donne non solo perché subiscono maggiormente gli effetti della disoccupazione ma anche a causa delle discriminazioni in termini di salari rispetto agli uomini. A partire dal 2000, inoltre, in diversi studi dell’Unicef è emerso come il 60% dei datori di lavoro preferisca assumere uomini e come sia difficile per le donne albanesi raggiungere posizioni manageriali, tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato. Esistono, infatti, settori tradizionalmente femminili (per lo più l’istruzione e la sanità) dove, nonostante le donne costituiscano rispettivamente il 66,6 e il 79 percento del personale, solo raramente capita di trovarle in posizioni di responsabilità. Sembra, cioè, aver preso piede una vera e propria discriminazione che vede le donne in posizioni nettamente inferiori rispetto agli uomini. E’ sconcertante anche il dislivello riguardo alla remunerazione: risulta, infatti, che le donne albanesi recepiscano un reddito pari al 65 percento di quello che guadagnano gli uomini con il medesimo profilo professionale. Non si ha neanche traccia di un miglioramento proporzionale all’età e col passare del tempo la situazione non sembra cambiare: le donne che lavorano sono poche e sottopagate.

Il Forum delle donne indipendenti d’Albania, anche di recente, ha denunciato l’alto tasso di disoccupazione femminile delle albanesi (19%), connesso alla privatizzazione del mercato del lavoro e agli elevati tassi migratori. Secondo uno studio svolto di recente dall’Instat, risulta che per ogni 100 uomini in età da lavoro ne siano disoccupati 30, mentre per 100 donne a essere disoccupate sono ben 53. Riferendosi ai rapporti degli ultimi anni, è dal 1995 che è venuto a crearsi un notevole dislivello tra la condizione lavorativa degli uomini e quella delle donne. Inoltre, la globalizzazione dei mercati ha prodotto la delocalizzazione degli impianti produttivi da parte di imprese e multinazionali e si è esteso, in questo modo, il lavoro dipendente mal pagato e precario, specialmente fra le donne. Anche molte realtà imprenditoriali italiane hanno trasferito in Albania considerevoli investimenti finanziari e tecnologici. Queste realtà imprenditoriali danno lavoro alla manodopera autoctona dal costo “contenuto” (basti pensare che i lavoratori percepiscono un decimo del salario italiano).

Qualunque sia la causa di questo arretramento, è comunque evidente la mancanza di politiche di emancipazione del governo. Durante gli ultimi anni sono stati registrati significativi progressi a livello legislativo, con il fine di garantire la protezione dei diritti delle donne in quanto diritti umani, e promuovendo l’uguaglianza tra donne e uomini in relazione agli spazi economici e sociali. Il governo albanese ha legalmente sancito l’uguaglianza di genere, tuttavia si tratta di atti di riconoscimento formale, smentiti spesso nella realtà dal perpetuarsi di disuguaglianze forti a tutti i livelli: economico, sociale, familiare.

Vi sono molte donne che desiderano intraprendere delle proprie attività, ma non vengono in alcun modo sostenute, rischiando di perdersi nei meandri della burocrazia albanese per poi trovarsi a rinunciare al proprio progetto. Flutura Xhabija, presidentessa dell’Associazione delle donne imprenditrici albanesi, non ha esitato a definire l’Albania “il paese balcanico che meno sostiene l’impresa al femminile, tanto che non esiste neanche un sistema di credito facilitato come altrove”. La situazione delle donne non può che definirsi preoccupante e Moikom Zeqo, archeologo, etnologo e antropologo albanese ha detto: “E’ assurdo vedere una tale inferiorità della donna, proprio nel paese dove le donne avevano il diritto di parificarsi agli uomini anche secondo il diritto tradizionale delle montagne, persino nei tempi più oscuri, quando il maschilismo era l’unico a dettare legge.”

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