Barcone con migranti
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Articolo di Laura Gatto

Come tutti i paesaggi, anche quello mediterraneo ricalca vicende umane, storie di popoli e di singole persone. Quelli odierni sono paesaggi disumani. Il mare, il mar Mediterraneo intendo, che nel passato ha aperto le vie ai commerci e che oggi culla navi di stupefacenti crociere, è divenuto il crocevia tra la vita e la morte, tra l’inizio di un più dignitoso percorso di vita e la reiterazione di una condizione disumanizzante in cui l’unica variante è il luogo.

Voglio raccontarvi la mia storia, è una delle poche cose che posso fare per riscattare soprattutto chi non ce l’ha fatta. Sono una persona, come tutta la mia gente che fugge dal continente africano attraverso il Mediterraneo, ma nelle notizie di cronaca sono solo un numero e un immigrato clandestino: “avvistati due barconi carichi di clandestini”, “in arrivo altri mille clandestini dalle coste africane”, “sbarcati oggi a Lampedusa altri centotrentaquattro immigrati clandestini sopravvissuti alla traversata, pare che dalle coste africane ne siano partiti circa centocinquantadue”.

Sono uno dei protagonisti dell’ultima notizia. Su quel barcone c’ero anch’io quel giorno, è stato un incubo.
Provenivo dall’interno dell’Africa, dentro un camion come un carico di bestiame ho dovuto fare molta strada per raggiungere la Libia. Lì sono rimasto per parecchi mesi, ho dovuto lavorare tanto per raccogliere i soldi da pagare ai traghettatori. Spesso, dopo lunghe settimane o addirittura dopo un mese di lavoro duro presso ricche famiglie, il padrone mi diceva di andare via e anche in fretta senza ricevere niente in cambio.

Rivolgersi alla polizia per farsi dare i soldi del lavoro sarebbe stato inutile. Non ti avrebbero creduto. Comunque sono riuscito a raccogliere i millecinquecento dollari che ho dato al traghettatore. Lui mi ha fatto nascondere in un vecchio garage. Lì ho trovato altri come me, persone che aspettavano di attraversare il Mediterraneo, di raggiungere la Sicilia, l’Italia, l’Europa. Aspettavano già da qualche giorno. Anch’io ho dovuto aspettare due giorni.

I traghettatori stipano lì la gente fino a che non raggiungono il numero giusto di merce umana da trasportare. Somali, eritrei, sudanesi, marocchini, tunisini, etc. tutti esasperati dalle guerre, dalla povertà, dai problemi economici e dalle persecuzioni. Tutti accomunati dal bisogno di iniziare a condurre una vita dignitosa, di trovare un lavoro, di avere un futuro. Tutti intrappolati nella rete di uno sporco commercio umano: il trasporto in camion, i lavori nelle ricche famiglie e la traversata del Mediterraneo sono gestite da una rete di trafficanti di persone coordinate da un capo e da numerosi subalterni disseminati in punti strategici del continente africano e sulle coste.

Nel cuore della notte, siamo saliti a bordo di una piccola imbarcazione, il traghettatore non ci ha accompagnati perché avrebbe rischiato di essere identificato e arrestato in Italia. Le condizioni meteorologiche sono buone, diceva, e poi il viaggio non durerà più di quarantotto ore. Mentre ci allontanavamo dalle coste altri gruppi di centinaia di persone aspettavano di imbarcarsi in fatiscenti barconi e gommoni poco rassicuranti.

È vero, quando abbiamo abbandonato le coste libiche il mare era calmo ma, come ho avuto modo di esperire, il Mediterraneo è assai mutevole e in quei giorni non è stato clemente con noi. Siamo rimasti stipati in quella imbarcazione per quasi nove giorni. In piedi. Qualcuno è riuscito a sedersi, è rimasto accovacciato sul pavimento di quel vecchio barcone.

Al buio, attorno solo acqua e ancora acqua dell’immenso mare. Ho ancora addosso la paura, è stato un incubo. Uomini e donne di ogni età, gestanti e bambini di pochi mesi anche solo di due settimane. Le riserve alimentari erano già finite dopo due giorni, abbiamo sofferto la fame, la sete e il freddo. I bambini piangevano, tutti avevamo paura. Nessuno di noi aveva grandi esperienze sul mare, nessuno conosceva bene la strada. Solo una bussola, nient’altro.

Diciotto di noi sono morti e man mano venivano gettati in mare. Siamo stati recuperati al largo di Lampedusa, non ricordo bene non avevo più le forze per tenere gli occhi aperti, camminare, parlare, sperare. Stavo male. Se il viaggio fosse durato anche solo un’ora in più sicuramente sarei stato gettato in mare anch’io, morto, per alleggerire il carico e aumentare le probabilità di salvezza degli altri.

Questa è la cronaca, ormai quasi quotidiana, di migliaia di persone che rischiano la vita per la vita.

Resti umani impigliati nelle reti. Tetri e macabri racconti di pescatori mediterranei impegnati nelle attività di pesca al largo dell’isola di Lampedusa danno misura dei movimenti umani che solcano quelle acque e dei rischi a cui vanno incontro consapevolmente o inconsapevolmente queste persone animate dall’unico desiderio di scappare dalla miseria e dai pericoli. Un viaggio spaventoso attraverso il Mediterraneo motivato dalla ricerca di una dignità negata, speranza che spesso naufraga in un dramma umano.

Tra una sponda e l’altra, cioè tra quella di partenza e di arrivo, questi uomini rappresentano il paesaggio umano frutto di dittature e silenzi di classi dirigenti africane, di accordi unilateralmente convenienti agli stati europei, di fughe di denaro che dovevano invece servire per progetti di sviluppo. I più forti giungono sfiniti, disidratati, affamati, scheletrici, moribondi, con gli occhi spenti e persi nel vuoto. E tra questi c’è anche chi viene rispedito in patria, portandosi dietro stanchezza, frustrazioni di un fallimento e tanta paura di continuare a non farcela.

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