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La ben nota storia del Catalanesca, uva vulcanica ed emblematica del Monte Somma, è così affascinante che vale sempre la pena poterla raccontare, soprattutto se poi si riesce a legarla al fascino senza tempo del vino che ne deriva, della mano che lo produce e del territorio.

L’etimo da cui deriva la parola e l’origine stessa del vitigno sono spagnole: infatti il Catalanesca venne importato dalla Catalogna nel 1450 da re Alfonso I d’Aragona, mettendo pertanto radici in Campania, dove adesso ha fissa ed unica dimora, precisamente nell’entroterra vesuviano, ma ecco come sono andati i fatti: si favoleggia che il re Alfonso si fosse perdutamente innamorato di una giovane fanciulla originaria di Somma Vesuviana, incontrata per caso in occasione della vigilia della festa di San Giovanni Battista; durante questa ricorrenza la tradizione voleva che le fanciulle nubili offrissero ai propri amati una piantina di orzo o di grano, raccogliendo doni che servivano ad arricchire la processione religiosa e che al tempo stesso costituivano un innocente pegno d’amore. Si narra che fu proprio così che Lucrezia d’Alagno si ritrovò ad offrire una piantina al monarca del Regno delle Due Sicilie, quando era appena una diciottenne. Quel giorno fu l’inizio di una travolgente storia d’amore e il sovrano, in occasione di uno dei loro incontri a Somma Vesuviana, decise di regalarle qualche barbatella di quella che allora veniva chiamata “uva catalana”: fu così che questo vitigno venne impiantato alle falde del Monte Somma, tra Somma Vesuviana e Terzigno, e la giovane Lucrezia ne avviò l’allevamento, prendendosene cura ogni giorno, facendo sì che il Catalanesca crescesse rigoglioso e arrivasse ai giorni nostri.

Com’è altrettanto noto, il Catalanesca ha vissuto non poche criticità: se da un lato la produzione di quest’uva è stata costante fino all’arrivo della fillossera, che ne ha segnato la fase di decadenza, dall’altro la scarsa considerazione di grandi studiosi dell’Ampelografia, reputandola erroneamente un’uva da tavola, l’ha quasi consegnata all’oblio e all’estinzione, da cui ha potuto salvarsi soltanto grazie all’ostinazione dei contadini e al coraggio di pochi produttori, consapevoli di aver a che fare con una cultivar vitivinicola difficile tanto da allevare che da vinificare. Ecco perché oggi il Catalanesca vede il suo areale in un’area ristretta della Campania e che conta appena 50 ettari, tutti ubicati sul versante del Monte Somma Terra, uno dei quadranti in cui è suddiviso in zonali il Vesuvio.

Tra i coraggiosi produttori e custodi del Catalanesca, attuatori di quella che si può considerare una viticoltura eroica vera e propria, c’è Vito Graniglia, persona a dir poco vulcanica e poliedrica, il quale ama rispecchiarsi nella seguente frase…

 “L’essenza dello spirito dell’uomo sta nelle nuove esperienze”.

Vito sostiene che ogni suo viaggio, per reale o metaforico, è sempre stato caratterizzato dall’amore per la Natura, nutrendo così il proprio cuore e riempiendo la propria anima di quel sano entusiasmo che ogni nuovo inizio scatena, vivendo con brio e passione le avventure che la vita riserva. Nato nell’aprile del ’64 e di origini flegree, Vito è stato educato da sempre a vivere il mare con gioia a 360°: nuoto, immersioni e conduzione delle imbarcazioni da diporto in primis,  da giovanissimo ha avviato un’impresa artigiana specializzata nella sicurezza per la navigazione che, con dedizione ed impegno trentennale, Vito ha fatto diventare uno dei principali riferimenti produttivi del settore in Europa, aprendosi ad esperienze internazionali di grande prestigio e valore, oltre a consentirgli di vivere la passione per l’elemento marino a tutto spiano. Immancabilmente la passione per il buon cibo e il buon bere hanno portato Vito ad approfondire e praticare il mondo della cucina, sin anche ad avvicinarsi alla Sommellerie, studiando e ricercando eccellenze, esplorandone anche l’aspetto professionale, riuscendo a fondere per un buon ventennio le sue più grandi passioni: navigare in funzione di comandante, su imbarcazioni prevalentemente a vela, e cucinare a bordo, consigliando del buon vino, facendo sempre nuove esperienze, macinando miglia nautiche, respirando la natura e vivendo rapporti umani di valore e grandezza inestimabili.

Insomma, l’aspetto emozionale ha sempre avuto un ruolo decisivo in Vito Graniglia, consistendo al tempo stesso nel motore e nel carburante per infiammare ogni partenza, fino a un fortuito incontro, che ha contraddistinto il suo ultimo decennio e che ha scatenato in lui la voglia di esperire ed approfondire il rapporto con la natura terrestre, fino a scoprire la magnificenza di fantastici superorganismi: le api!

Ed è grazie all’amore per le api che Vito, ribaltando tutto, apre nel 2015 la sua azienda agricola, assolutamente in biologico nei fatti prima che sulla carta, chiamandola Agribeeo, dopo aver compiuto un percorso che lo ha portato a diventare apicoltore, auto-modellando lo spirito che ha unito in piena sintonia l’amore per il mare e quello agreste, in una combinazione di rispetto e curiosità per ciò che con potenza riuscivano ad ispirare in lui. La scelta di posizionare le sue prime arnie, in un ambiente totalmente incontaminato, è caduta su degli impervi declivi posti sul Vesuvio, precisamente a Somma Vesuviana, a circa 600 metri sul livello del mare, dove Vito sostiene che il karma ha voluto che ci fossero delle viti di Catalanesca, completamente a piede franco, unitamente a delle altrettanto preziose piante di “pellecchiella”, le tipiche albicocche della zona.

Con impeto e dedizione quasi fanciullesca, Vito ha fatto rinascere quei terreni e restaurato, nel rispetto delle tradizioni contadine arcaiche, il vigneto e il frutteto, festeggiando con gioia la sua prima vendemmia proprio nel 2015, arrivando a produrre 96 bottiglie di vino!

Oggi, tra pomodorini del Piennolo del Vesuvio barattoli di confettura di albicocche e di miele, Vito arriva a produrre ben 1280 bottiglie di vino e, trattandosi di Catalanesca, non poteva non chiamare il nettare che Donna Lucrezia, che per filosofia produttiva ricade nel disciplinare dell’Igt Campania.

Grazie a queste esperienze di vita tra le onde e la campagna vesuviana si è profilato all’orizzonte un nuovo progetto emozionante per Vito, divenuto ormai realtà, e come a lui piace dire…

Un’emozione non si può spiegare: si vive”.

Riguardo al vino, ci sono storie note e storie meno note, ma dietro ad esso ci sono persone ed è bello poter raccontare pure loro, di modo poi che con il vino ci si possa parlare…

Il Donna Lucrezia Campania Bianco Igt 2021 di Agribeeo ondeggia al calice nell’intensità di un colore dal giallo paglierino, vivo ed ammaliante, con archi abbastanza fitti e lacrime a lenta discesa. Al naso la ginestra svanisce per cedere il passo al sentore di albicocca non troppo matura, quindi al limone pane, al timo limonato ed alla crosta di pane bianco: un bouquet con soglie di riconoscimento odoroso e differenziale molto ravvicinate tra loro, decisamente compatte e che non si schiudono nell’immediato. Il sorso è altrettanto compatto, dritto e copioso nella sua generosità: è caratterizzato, dopo un’evanescente astringenza iniziale, da un buon apporto glicerico, da una stuzzicante sapidità e da una freschezza abbastanza vivace, che perdura piacevolmente dopo tre anni. Tornano alla gusto-olfattiva le note d’agrume e di albicocca, assieme ad una lievissima percezione da miele di corbezzolo a chiudere, con buona persistenza. Insospettabilmente una certa vinosità si avverte alla deglutizione, come a sottolinearne il carattere rustico e genuino, per certi versi ancora giovanile. Il Donna Lucrezia insomma, grazie alla sua indole gioviale, è di quei vini che dissetano l’animo senza inaridire il palato. Bocconcini di baccalà in tempura, su passatina di ceci e gocce di nero di seppia, insomma il tempo di fare aperitivo, scolare la pasta e stappare la seconda bottiglia, mettendo a tavola le candele spezzate con la genovese di baccalà. E chest’è!

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