Raiz
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di Manuela Martignano

Oggi si parla di povertà, se ne parla molto fra di noi, un po’ meno in televisione, meno che mai in questo regime informativo colpevolmente distratto. Io non riesco a non pensare agli anni Novanta. Erano anni in cui l’Italia navigava in acque putride, anche se meno putride di quelle in cui naviga oggi. In una città emblema come Napoli, dove non occorre essere extracomunitario per essere emarginato e dove la povertà è il comune denominatore di tantissime vite, una voce grida indignata, noi lo ascoltiamo in tutta Italia questo canto graffiante e arrabbiato, è Raiz, allora voce della storica band partenopea, gli Almamegretta.

Sarà meglio specificare sin dall’inizio che in quegli anni un vero e proprio movimento di artisti “contro” veicolava attraverso la musica ed altri linguaggi una protesta che infiammava i concerti e ti accompagnava a casa nella notte, ti obbligava a riflettere. La maggior parte di loro cresceva nei centri sociali, le oasi occupate che hanno caratterizzato un pezzo importante di musica italiana, posti in cui si ragionava sullo stato delle cose e la musica era un’arma per risvegliare le coscienze. Questi artisti e questi posti ci mancano molto. Ma torniamo a Napoli, a quel 1993 che vede nascere un brano la cui attualità spezza il respiro, una hit che si ascolta oggi come se fosse stata scritta ieri.

Gli Almamegretta sono un gruppo che ha prodotto molti testi sulle diseguaglianze, sulle emarginazioni e sulle povertà di questa fetta di Mediterraneo che è l’Italia. Riflessioni sulla nostra storia fatta di migrazioni continue, il nostro essere meticci perché al centro di un mare che ha visto alcuni fra i più importanti spostamenti della storia. Una storia di conquiste e di culture che si incontrano. La loro musica aveva non solo i suoni del mediterraneo, ma le tematiche che hanno caratterizzato il decennio passato e che sembrano andar per la maggiore ancora oggi.
Fra i brani storici, che sono perle di analisi sociale, parlo di Anima migrante , Sud e Figli d’Annibale oggi mi piace ricordare un altro lucidissimo spaccato che è Fattallà L’immagine che mi porto dentro è quella di uno dei concerti degli Almamegretta a cui ho assistito, la voce di Raiz è un tuono quando introduce la canzone di cui parliamo: “Fattallà è la cosa che viene detta a tutte le persone che vengono dall’Africa e dall’Asia qua, a cercare un po’ di legittima felicità, dopo che la civile Europa gli ha devastato i loro paesi di provenienza. L’unica cosa che viene detta è fattallà, fattallà in napoletano significa vattene.” Il testo è lucido e spiazzante. Cosa ci abbia spinto nei diciassette anni che sono trascorsi a non guardare negli occhi un’Italia che iniziava a presentare i primi sintomi di seria, e per questo gravissima, insofferenza nei confronti di chi aveva avuto meno fortuna, rimane ancora un mistero. Da un lato accoglievamo in una terra non proprio ricca come la Puglia, le vittime di una guerra atroce che sconvolgeva i Balcani – la regione verrà premiata con la medaglia d’oro al Merito Civile per la prova di civismo e di forza morale – dall’altro ci preparavamo ai moti razzisti per niente celati a cui assistiamo da qualche annetto a questa parte.

A questo punto non è la povertà nella sua più comune accezione a doverci spaventare, non è quanto guadagniamo, non quanto riusciamo a spendere ogni mese, la povertà non andrebbe più calcolata solo in base alla casa di proprietà, ai bei vestiti e ai master costosi. La vera povertà di cui dovremmo occuparci è quella che ha inaridito i nostri cuori e spezzato il respiro alle nostre coscienze. Quella che ci vede immobili, indifferenti, quella che ci fa dimenticare di quando gli stranieri eravamo noi. Questa è la povertà che dovrebbe farci più paura, quella che spinge milioni di credenti a non riconoscere nel prossimo quel Dio che tanto amano, quella che ci vede scoperti, deboli, razzisti e sempre pronti a pensare ad altro.
“Razza, cultura, nascita, nazione, sono diventati la droga del popolo” proprio come cantavamo più di dieci anni fa sotto quel palco. Il cerchio si è chiuso, siamo diventati come non volevamo, evitiamo le superfici riflettenti per non riconoscere in noi quello che da sempre ci siamo detti essere sbagliato.

Ripartiamo dalla nostra storia, ripartiamo anche da lontano se necessario, riscopriamo quelle parole che hanno formato un’intera generazione che ora sembra essere stata inghiottita da qualche buco nero di inimmaginabile provenienza, scopriamoli questi specchi, “costruiamo la società che non dice fattallà”!

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