Nell’Agro Sarnese Nocerino c’è una profusione di ritratti di territorio incompiuti e mai fatti, oltre che di talenti inespressi dal punto di vista narrativo: la causa molto probabilmente è ascrivibile ad una scarsa conoscenza del territorio stesso, ad una forma di distrazione involontaria, piuttosto che alla mala fede, quindi alla fine si finisce per dipingere le cose a proprio uso e consumo, perdendo ancora una volta la possibilità di dipingere fedelmente un quadro fatto di artigiani virtuosi, degni assolutamente di essere raccontati ed appartenenti ad una terra ricchissima di materia prima e talento.
Finendo piuttosto per scrivere sempre dei soliti e rassicuranti noti, un poco come fare la O col bicchiere, costoro sono affidati alle mani di San Giuda Taddeo, che con tutta la buona volontà non è che i casi disperati li risolve proprio tutti, per fortuna però, nel caso specifico che sto per raccontarvi, ci pensa Sant’Onorato di Amiens, patrono di quelli che impastano…. che per i gastrofighetti vogliosi di francesismi sarebbe Saint-Honoré.
Tra le piccole maison nell’hinterland salernitano dell’arte pasticcera e della lievitazione c’è a Castel San Giorgio la Dolceria Romano, una piacevole realtà che tra il gusto classico e il moderno riesce a fare la gioia dei grandi e dei piccini con un palinsesto ricco che varia tutto l’anno, inseguendo la stagionalità e l’estro del maestro Francesco Romano.
Francesco, non ancora quarantenne, ha in realtà un trascorso ultraventennale in questo mestiere ed è figlio d’arte: la pasticceria del padre Tonino a Nocera Inferiore è sempre stata un punto di riferimento per la città e di grande nominata, a parte per tutti i dolci della tradizione, c’è sempre stata la torta cubana e lo zuppettone, nominata che una volta fatto l’assaggio è più che giustificata. Fatto sta che è da un bel pezzo che Francesco cammina sulle proprie gambe, a partire da studi accademici, diversi incarichi da pastry chef e studi approfonditi che lo hanno portato a miglioramenti ed approfondimenti costanti, tracciandone un profilo indipendente e molto singolare nel suo operato.
È un grandissimo tifoso della Nocerina, ha empatia tanto col pubblico che coi suoi collaboratori, creando un ambiente di lavoro felice, restando sempre ben disposto al confronto. Ma subito aggiunge: “anche se nulla è più importante di mia figlia Dalida, che vive con la sua brava mamma e che oggi compie 8 anni!”. Al di là di ciò, per quanto sorridente e disponibile, ci tiene molto al riserbo e quindi non posso che descrivere Francesco con una sua stessa frase:
“D’amore son cresciuto, sognando, interpretando, impastando…”
Ragazzi comunque, impastando impastando, siamo arrivati quasi a Natale e quindi non resta altro che raccontare com’è andata con l’assaggio di uno dei panettoni di Francesco. Devo ammettere che agli inizi ero un poco sulle mie, anche perché tendenzialmente parto dal provare prodotti base, dai classici, per avere migliore comprensione delle cose, senza troppe interferenze insomma, tipo quelle che si vengono a ricreare con una sovrapposizione di ingredienti da prodotto “conciato”, se non fatto a regola d’arte, e quindi potrete immaginare quello che mi è frullato per la testa quando, con una certa nonchalance ed un sorriso sotto ai baffi, il mastro pasticciere mi ha esortato ad assaggiare un panettone ai frutti di bosco.
Panettone bello a temperatura ambiente, quella del tepore accogliente delle case d’inverno, tirato fuori da un packaging ben fatto, essenziale, al tempo stesso d’effetto e distinguibilissimo. La calotta di cioccolato fondente al 55% e la guarnizione reggono perfettamente e dopo un po’ creano anche l’effetto della serie “se non ti lecchi le dita godi solo a metà”, il colore esterno è foriero di una cottura uniforme ed al punto giusto; una volta aperto i profumi nel loro quadro complessivo sono decisamente coerenti al gusto del lievitato ma quel che sorprende è la complessità cerealicola che ne vien fuori: lievito madre si, ma qui abbiamo a che fare con un blend di farine da varietà antiche di farro. Avviso per i mattacchioni sfegatati ed irriducibili del “memory foam effect”: l’elasticità e l’alveolatura, quest’ultima con buona distribuzione, ci stanno ma levatevi dalla testa che dopo la pressione esercitata il panettone viene su alla stessa maniera, risultato ottenibile certo da farine con un fattore di forza W maggiore, piuttosto che con una poco raffinata a base di un frumento come il farro. Ad addentarlo c’è solo piacere: umidità intrinseca regolare, succulenza indotta grazie all’acidità del frutto, dolcezza e spezie per niente prevaricanti, il gusto della farina autentica che dona fragranza, i profumi genuini in retro olfattiva ed un ottimo bilanciamento complessivo. Se gli volessimo trovare proprio un difetto recondito, per quel che significa, magari un 10% in più di cacao amaro a dargli una spinta di persistenza.
Intanto il panettone è finito e chi si è visto s’è visto.
Il risultato complessivo è quello di un lievitato aderente al gusto tipico dei frutti di bosco, decisamente diverso da quello che il mercato inculca, si percepisce nettamente ogni singolo ingrediente usato, il panettone è leggero e digeribilissimo, per niente piacione come tantissimi altri. In definitiva quello di Francesco Romano è un lavoro di originalità oltre l’artigianalità, una dimostrazione di consapevole capacità di gestione di farine per niente duttili e di grande maturità professionale. E, visto che il nostro pasticciere è fuori dagli schemi, per pareggiare i conti ve lo do io un abbinamento come si deve: una bella birra framboise.
Un bellissimo incontro quello con Francesco Romano. Parlare della sua pasticceria, comprendere la sua singolare interpretazione del panettone e poter veicolare il messaggio di un padre per sua figlia è stato un piacere ed un privilegio.