Gli alieni sono tra noi ci vivono sotto il naso passando inosservati. Sono subdoli, tenaci, mimetici, prolifici e dove arrivano loro gli autoctoni sono costretti a cedere il passo, presi per fame o sfrattati da casa. Per lo più sono verdognoli anche se non disdegnano i manti sgargianti al cambio di stagione e soffici pellicce. No, non sono uomini-lucertola, anfibi antropomorfi giunti da un altro pianeta: sono piante e animali alloctoni detti appunto “specie aliene”, originari di altri territori e introdotti volontariamente o no dall’uomo in regioni distanti dalla loro Patria, diventate una minaccia per la biodiversità. L’invasione di specie straniere è infatti la seconda causa di perdita di specie animali e vegetali, dopo i disastri ecologici veri e propri.
In Europa ne sono state censite 10.822 nell’ambito del progetto Daisie (Delivering Alien Invasive Species Inventories for Europe, finanziato nell’ambito del sesto programma quadro per la ricerca dell’UE) e si è calcolato che il 10-15 per cento di esse potrebbe avere un impatto economico o ecologico negativo. Le isole sono naturalmente gli ambienti più vulnerabili alle conseguenze delle invasioni e la Sardegna rientra appieno nel gruppo: qui nel 2000 un censimento ha snidato circa mille specie non autoctone di cui un centinaio infestanti. Fateci caso quando prenderete in mano un giornale di bordo o un qualsiasi catalogo di agenzia viaggi in cui si parli di Sardegna, la situazione che vi si mostrerà sarà spesso questa: spiaggia bianca, mare cristallino e uno sfondo di palme e agavi: la regione è diventata un’isola tropicale anzitempo, nell’immaginario collettivo e nella realtà dato che la presenza di piante infestanti delle basse latitudini è segnalata ovunque: passo dopo passo gli alieni verdi colonizzano i luoghi e rimettono ecosistemi vecchi di secoli. Uno dei nostri habitat più sensibili sono le dune costiere, e proprio qui nei decenni scorsi si è deciso di piantare uno sgargiante killer ecologico per stabilizzarle: il Carpobrotus acinaciformis volgarmente detto “fico degli ottentotti”,’ una pianta grassa con fiori fucsia, gialli, viola.
E se raramente in una cartolina con veduta sarda vedrete un Crocus minimus (lo zafferano) o un Bellium crassifolium (la pratolina delle scogliere), il Carpobrotus occhieggerà spesso dalle nostre dune pur essendo una specie di origine sudafricana. Non vi lasciate ingannare dal suo aspetto innocuo, fuori dal suo ambiente originario dove è in equilibrio con altre specie e con i suoi nemici naturali, si comporta come un mostro: occupa spazio e strappa risorse alle specie native, in più crea un tappeto che impedisce la crescita di qualunque altro vegetale. Per di più è stato piantato dove crescono specie endemiche rare. Nel nord dell’isola, tra il 2002 e il 2003 si è fatto un delicato lavoro di rimozione per studiare il comportamento di questa pianta e delle specie indigene: sono stati creati dei quadrati dai quali si è spiantato il Carpobrotus e si è monitorata la tendenza all’erosione del suolo, la difficoltà per le specie indigene a ri-colonizzare le aree libere e parallelamente quella della pianta grassa a riprendersi i suoi spazi.
Alcune specie alloctone sono talmente diffuse da essere parte del paesaggio, ribattezzate addirittura con nomi dialettali. L’ailanto (Ailanthus altissima), che arriva dal sudest asiatico, è una di queste: in alcune zone dell’isola lo chiamano “sammucu furisteri” (sambuco straniero). La importarono gli inglesi nel ‘700 per allevare una farfalla che produce una sostanza simile alla seta, dato che in quel periodo i bachi erano minacciati da un’epidemia. L’uso in tal senso non ebbe fortuna, in compenso la pianta piacque e si diffuse come ornamentale: peccato che una volta piantata sia difficilissima da eliminare e si diffonda ovunque, rapida come un fungo. E’ nelle aiuole cittadine e lungo le strade fuori città, ma cresce anche sui muri, nei marciapiedi e nell’asfalto; spacca qualunque materiale e germoglia in qualsiasi condizione; le sue radici si sviluppano in lunghezza e profondità, dando vita a nuove piante. E’ tossica, e dove cresce lei, pian piano tendono a scomparire altre specie più sensibili: non a caso nell’isola di Montecristo, in Toscana, stanno cercando di rimuoverla, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Unione Europea (Life). In Sardegna non siamo a livelli d’allarme, ma la proliferazione dell’ailanto è comunque massiccia come anche quella dell’Eucaliptus, specie australiana abbondantemente usata per dividere le proprietà, come frangivento, per produrre legna e bonificare terreni paludosi, dato che le sue radici assorbono grandi quantità di acqua. Quest’ultima non si diffonde autonomamente – ed è già una fortuna – ma una volta piantata si impossessa del terreno con le sue radici e li diventa impossibile piantare altro. In Sardegna sono stati realizzati rimboschimenti di eucalipto su superfici molto estese, annientando la biodiversità pre-esistente. Il sottobosco, la fauna, lo stesso paesaggio: tutto cambia, perché l’Attila australiano sfrutta tutte le riserve d’acqua dolce presenti. Per riportare la situazione al punto di partenza bisogna bonificare il terreno non solo tagliando gli alberi ma anche lavorando la terra per eliminarne le radici. Senza contare che per l’area sarà necessaria una cura ricostituente: gli eucalipti assorbono acqua e sostanze nutritive come poche altre insterilendo il terreno.
L’elenco si potrebbe estendere ancora, passando dall’acetosella (Oxalis pes-caprae) e finendo con il falso cotone (Gomphocarpus fruticosus), la prima arrivata accidentalmente e la seconda per fini produttivi, oggi entrambe infestanti ma per chiudere questo breve resoconto sugli alieni in giardino preferiamo citare un altro esempio che non riguarda l’introduzione per fini produttivi bensì la moda. Nell’iglesiente le società minerarie avevano il vezzo di abbellire i giardini di ville e direzioni con specie aliene, che svettavano sui vegetali locali: qualcuno scelse il cedro del libano, ma la maggior parte preferì la Palma delle Canarie o quella da dattero. Oggi seguendo l’alveo del rio San Giorgio, tra Iglesias e Gonnesa, si vedono decine di palme nate spontaneamente per la dispersione dei semi: sia chiaro, non è ancora il palmeto di Elche, ma già i ciuffi tondeggiandi spiccano nelle immagini satellitari sui modesti cespugli di cisto e lentisco.
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