Grazia Deledda luce e ombra
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La malattia morale: un itinerario d’esperienza del venir fuori.

Ci sono alcune persone che guariscono attraverso e nella malattia e guariscono attraverso la morte. Persone che mentre stanno morendo (Portolu) capiscono che quella è la loro guarigione. A volte la guarigione è ammalarsi, altre volte è andarsene, a volte restare.

Lo sguardo nel viaggio letterario di Grazia Deledda è quello femminile, che guarda la vita pratica nel suo atto fondamentale di scelta tra bene e male, giusto e ingiusto, verità e menzogna, felicità e passione, cielo e terra. È femminile lo sguardo che ricerca la verità, smascherando gli inganni, l’impostura sui quali si fonda la morale. È femminile la verità che infiamma, illumina e brucia, mettendo in pericolo l’integrità. È femminile la vita che, violando le regole morali, sollecita la ricerca dell’autentico, attraverso gli erramenti del logos e dell’eros. Così, in un paesaggio naturale vergine e selvaggio, la cantrice della natura sarda descrive, in modo pittoresco, le manifestazioni ricorrenti come il dolore, la malattia, il tormento, le passioni, la pazzia, il dubbio, capaci di mettere uomini e donne davanti alla nuda veritas, in attesa di salvezza. Preti, pastori, banditi, possidenti, padroni, vedovi, generi, suoceri, mendicanti, mercanti, borghesi, figli, madri, mogli, fidanzate, serve, donnicciole, combattono continuamente scontrandosi con i principi di giustizia, onestà e pudore, bramando gioie e grandezze che li liberino dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento.

Sono in guerra, quella interiore, che contorce. Servi e padroni, fortunati e ultimi, ricchi e poveri, nessuno di loro ha scampo davanti alla malattia morale, capace di annullare le distinzioni sociali e di classe, livellando il senso di umanità. Il male, la colpa e l’espiazione, la tentazione e la caduta, il peccato ed il pentimento, le passioni, i desideri, gli amori inseriti, nella consueta cornice di vita campestre, come disagi e malattie morali, quasi con ossessione in tutta l’opera letteraria, diventano necessari itinerari d’esperienza per conoscere il proprio sé autentico. Non c’è scorciatoia. È il dolore che ci insegna a valutare il bene e a cogliere il senso delle cose e delle azioni in profondità e questo lo sanno bene i “vinti” e coloro che hanno vissuto un’esistenza più avara e che aspirano ad un cambiamento, ad un miglioramento.

Si salva solo chi capisce, chi paga personalmente. Il dramma esistenziale si specchia nelle scene descrittive dei paesaggi di una Sardegna nostalgica, la cui inarrestabile forza vitale trascina oltre, dinanzi alla sacralità della vita, che rappresenta solo un passaggio provvisorio dell’uomo in essa. In questo istante si decide il destino dell’uomo, in accordo con la Provvidenza divina. Toccati dalla grazia della comprensione, la redenzione giunge come dono. E dinanzi alla morte, il più significativo essere autentico, libero dalla quotidianità dei pensieri e delle passioni, tutte le cose del mondo, misurate, si annientano. Nel momento finale, quello inappellabile e che non permette replica, si realizza lo “stato di Grazia”.

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