Siamo a Salonicco, Grecia, nel 1943. In quegli anni il modello di comportamento che veniva emergendo dai più alti vertici della politica era quello dell’uomo forte, indifferente e noncurante del bene dei suoi stessi simili. In quegli stessi anni, però, un uomo si è distinto sopra tutti gli altri per coraggio, per umanità e per dignità. Non si parla del tedesco Schindler, di cui si conosce la storia grazie al film di Steven Spielberg “Schindler’s List”. No. Il protagonista in questo caso è un italiano. Precisamente si tratta di un romagnolo: il console Guelfo Zamboni, che ha tanti meriti quanti quelli di Schindler, ma che in pochi conoscono.
Guelfo Zamboni nasce a Santa Sofia (provincia di Forlì) da una famiglia di artigiani. Il suo temperamento si svela sin da subito: non avendo la famiglia i mezzi, lotta strenuamente per una laurea in economia e commercio. Una volta ottenuta, nel 1925 vince il concorso diplomatico. La sua brillante carriera lo vede protagonista di una grande opera nel 1943. Dal 1942, infatti, Zamboni si trova come console a Salonicco. La città ospita in quegli anni la più grande comunità di ebrei sefarditi (circa 56.000 persone), molti dei quali di origine italiana. L’occupazione tedesca della città permette a Zamboni di essere testimone di tutti gli atti atroci compiuti dai nazisti nei confronti degli ebrei, fino ai preparativi della loro deportazione ad Awschwitz. Agli inizi del 1943 Eichmann ha mandato il suo vicario ad Atene per la deportazione della comunità di Salonicco. Con tutta una serie di telegrammi, Zamboni riesce a creare un brillante escamotage per salvare circa 350 ebrei. Zamboni rilasciava infatti a queste persone il certificato di cittadinanza italiana, che permetteva loro di rifugiarsi nelle zone controllate dagli italiani. La sua genialità sta nell’aver escogitato l’idea dei certificati “provvisori”, con i quali si delineavano possibili legami familiari con italiani. Questi erano detti provvisori perché venivano rilasciati in attesa di accertare meglio il diritto dell’intestatario. In questo modo il console romagnolo riuscì non solo a salvare tantissimi ebrei italiani, ma anche greci, dimostrando grande valore.
Non si trova un film, un romanzo o un monumento che metta a conoscenza della grande opera di Guelfo Zamboni. Il suo nome si scopre solo per caso, se si sta passeggiando per le vie di Milano, dove nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo gli sono dedicati un cippo e un albero, o in quello virtuale dei giusti d’Europa di Salonicco, che ha un altro albero col suo nome, così come a Santa Sofia, dove è stato costruito un cippo in sua memoria. Al console dal cuore buono è stato riconosciuto nel 1992 dallo Stato di Israele anche il titolo di “Giusto tra le Nazioni”. In realtà per molto tempo la sua opera è stata nascosta, non raccontata: per chi è in mala fede è più facile perdere la memoria che conservarla, altrimenti gli atti dei giusti prendono il sopravvento.
Il primo a mettere per iscritto la straordinarietà della sua storia fu Lucillo Merci, suo collaboratore, in un diario. Questo fu poi ripreso da uno storico italo-israeliano, Daniel Carpi, che la inserì in un saggio, poi pubblicato dall’Università di Tel Aviv, di cui furono stampate, e presto dimenticate, poche copie. É una gran fortuna che esista oggi il libro “Ebrei di Salonicco 1943 – I documenti dell’umanità italiana”, pubblicata dall’Ambasciata d’Italia in Grecia e curato da Alessandra Coppola, Antonio Ferrari e Jannis Chrisafis, un grande sforzo di ricordare un grande uomo. Al libro si ispira anche l’opera teatrale “Salonicco ’43”, di Ferdinando Ceriani, Antonio Ferrari e Gian Paolo Cavarai, che ha fatto tappe in varie città d’Italia e del mondo.
Spesso le storie dei singoli si perdono nell’amalgama dei grandi eventi storici, ma non per questo sono meno degne di essere ricordate. L’opera di Zamboni è un esempio di umanità che non ha temuto il pensiero dominante, un esempio di umiltà e semplicità, chiavi per compiere grandi gesti. In un’intervista rilasciata da Zamboni, lui stesso spiega: “Sapevo bene che i certificati erano falsi. Li rilasciavo coscientemente a persone che non avevano niente a che fare con la cittadinanza italiana. Cosa dovevo fare per salvarli?”. Non importa il cosa o il come, ma la semplice esigenza di sentire che essere umani in difficoltà, messi in ginocchio, che stavano subendo un’ingiustizia, andavano salvati: qualcuno oggi si sta sentendo al suo stesso modo?
Daniela Melis