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di Domenico Petruccelli

Cito a memoria dal “De Principatibus” di Niccolò Machiavelli: “se tutti gli uomini fossero buoni, del principe non ci sarebbe bisogno”. Traduco: se tutti gli uomini fossero buoni, della politica non ci sarebbe bisogno. A ragion veduta, allora, Norberto Bobbio teorizza che la politica è teoria e prassi e che compito suo è garantire l’ordine sociale. Esistono almeno due modi diversi di garantire l’ordine sociale: uno è tirannico, l’altro è democratico. Penso che quello democratico sia preferibile.
Eppure, ho sentito pronunciare la parola antipolitica. L’ho sentita pronunciare con disprezzo come se fosse possibile la categoria politica dell’antipolitica senza accorgersi che essa contiene in sé la propria contraddizione perché nasce da un bisogno di Politica, dalla richiesta che la Politica riacquisti la sua centralità nella vita di una società democratica.

Certo, c’è una diffusa percezione dell’inutilità della politica. C’è in giro quasi un furore iconoclasta contro di essa. Sicuramente ci sono molte buone ragioni che potrebbero spiegare questo furore, ma quella fondamentale mi sembra essere il tradimento delle attese che pure in tempi non molto remoti la Politica ha saputo suscitare e anche rispettare.
C’è stata un’involuzione della politica verso forme di populismo e di clientelismo intesi come unici strumenti di costruzione di un consenso che, ahimè, ha ridotto l’uomo in servitù. Mi pare si stiano riproponendo modelli di società semifeudale che mi sembrava fossero stati superati grazie alle lotte e ai sacrifici di tanti che si sono battuti per l’affermazione dei diritti fondamentali: alla vita e alla libertà.
Il presente, purtroppo, vede uomini che sono costretti a farsi “clientes” del potente di turno per necessità e bisogno. Ma la politica che si presta a questo gioco tradisce se stessa. Tradisce la ragione stessa per cui è nata e che ha giustificato il suo “esserci”.

Da un po’ di tempo ho sentito pronunciare parole senza senso e senza significato.

Ho sentito pronunciare la parola tradimento in politica. Il tradimento fa riferimento ad un vincolo di fedeltà e la categoria della fedeltà appartiene alla Fede e non alla Politica. La categoria della politica è la lealtà che vuol dire pronunciare con chiarezza il proprio punto di vista e aprirsi al confronto senza trucchi e senza inganni. In politica non si è leali quando non si mantengono le promesse fatte, le aspettative suscitate, i sogni generati. In politica non si è leali quando i comportamenti e le parole diventano ambigui; quando non si pronunciano parole chiare; quando si usano le parole per nascondere il proprio pensiero e non per svelare il proprio punto di vista. In politica si è sleali con se stessi e con gli altri quando si salta sul carro del vincitore sconfessando parole pronunciate non molto tempo prima. In politica l’unico tradimento è alla Politica. Perché la Politica richiede fiducia e credibilità.

Ho sentito dire della morte delle ideologie, ma con le ideologie sembra che siano morte anche le idee e la capacità di esercitare un pensiero complesso in grado di leggere una realtà complessa.
Ho sentito dire che è finito il tempo delle chiacchiere e che questo è il tempo del fare. Ma, allora, la domanda è: fare cosa? E come farlo? E con chi?
E, allora, questo più che il tempo del fare dovrebbe essere il tempo del pensare perché la politica ha bisogno di un pensiero chiaro e condiviso.

Ho sentito predicare troppe volte contro. Contro chi non la pensa come me. Contro tutto ciò che è diverso. Contro chi non si riconosce in un pensiero unico.
Ho sentito parlare dell’avversario come del peggior nemico di cui sbarazzarsi perché responsabile di tutti i mali.
Ho sentito pronunciare parole senza storia e senza memoria, perché chi le ha pronunciate ha dimenticato che la diversità e il confronto leale sono l’anima stessa della democrazia; ha dimenticato che la nostra Costituzione democratica è nata dal confronto serrato tra idee politiche e visioni del mondo e della società diverse e spesso opposte.

Ho sentito pronunciare la parola “Speranza”. Certo, la Speranza appartiene alla Fede. Essa ci consola perché ci fa credere che un mondo migliore è possibile; che una vita meno grama è dietro l’angolo.
La Speranza appartiene al pensiero consolatorio grazie al quale si accettano, quasi con gioia, e comunque senza troppo lamentarsene, tutte le pene che qualsiasi forma di potere mi vorrà infliggere.
Della speranza, però, anche la politica ha bisogno; come dell’utopia, come della convinzione che un mondo migliore è possibile. Alla Politica è demandato il compito di costruire una società più giusta; alla Politica spetta governare le contraddizioni economico-sociali per rendere possibile a tutti e a ciascuno di vivere una vita degna di essere vissuta.

Ho sentito dire che questa è una generazione senza futuro. Ma può esserci un futuro senza una capacità di sognare? E quando tutti i sogni vengono spezzati dalla violenza del pensiero unico, dalla presunzione della verità oggettiva, dall’imperio della Ragione che pretende, in nome della stessa definizione di se stessa, di aver ragione perché unica depositaria di ciò che è vero e giusto; che non disdegna di scatenare guerre e giustificarle con la supponenza di chi dice “era necessario, era inevitabile”; allora, conservare la capacità di sognare richiede un atto di coraggio; richiede un pensiero rivoluzionario; il pensiero di chi sa che deve opporsi non tanto al passato quanto al presente. In fondo una società è senza futuro quando è privata del presente; quando si tenta di impedire a ciascuno di vivere il proprio presente; quando ci si chiude nel proprio mondo alla ricerca di un’identità solitaria che non potrà mai essere.

Non ho sentito pronunciare la parola “giustizia”. Eppure il tema della giustizia appartiene alla Politica, ne costituisce l’essenza. Non è forse il tema della giustizia il tema politico per eccellenza? Non è forse compito precipuo della Politica immaginare e cercare di costruire un mondo migliore, una società più giusta nella quale ognuno può condurre con dignità la propria esistenza?

Non ho sentito pronunciare, da tempo, la parola “Politica”. Ne ho visto, però, lo scempio. Ne ho visto il tradimento. Ne ho visto la traduzione a proprio uso e consumo come puro esercizio di potere. Ho visto il tradimento del suo significato alto e nobile invocando “superiori ragioni”. Lo so che il potere tende per definizione a conservare se stesso. Ma per conservarsi deve esercitarsi con l’inganno, la menzogna, l’ambiguità delle parole pronunciate e poi rinnegate? Non credo. In fondo una delle lezioni di Socrate, della sua vita e delle sue parole, è stata questa: se non volete che nella Città ci sia disordine non c’è altra via che quella di essere giusti. E’ solo la Giustizia che giustifica l’esercizio del potere, tanto più in un Paese democratico.
La politica che si meraviglia della cosiddetta antipolitica, dell’astensionismo , del rifiuto di ogni forma di collaborazione con tutto ciò che sa di politica, inganna se stessa nel tentativo di giustificare la sua esistenza a prescindere dai comportamenti e dalla credibilità di chi la esercita. Si è voluto far passare l’idea che in politica “il fine giustifica i mezzi”. Si è voluto far passare per teoria machiavelliana quello che non è altro che machiavellismo con tutta la valenza negativa che il suffisso “ismo” può avere. Troppo facile credere che il fine giustifica i mezzi. Solo così, infatti la politica può giustificare ogni comportamento e ogni scelta dei suoi uomini. Anche la scelta di non scegliere, di gestire semplicemente il quotidiano, di negare i sogni e condannare le utopie, di tradire pure quelle ideologie che tanta speranza in un mondo migliore, più giusto, avevano fatto nascere.

Ho sentito pronunciare la parola cambiamento. Ho sentito dire che la politica deve cambiare, deve rinnovarsi. Ma perché ciò avvenga è necessario che la politica ridia senso e significato a se stessa. E’ necessario che la parola riacquisti il suo significato e la sua capacità significante. Se è vero che la parola significa la cosa, deve cambiare (meglio: riacquistare) il suo significato. Secondo la lezione di Norberto Bobbio e di Karl Marx, non può accontentarsi di predicare il cambiamento, deve farsi azione e prima di tutto deve cambiare se stessa nella teoria e nella prassi, facendo in modo che al detto corrisponda l’agito, che alla parola corrisponda la cosa.

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