C’era una volta il posto fisso. Una serie di eventi economici, sociali e culturali hanno contribuito a ridisegnare la fisionomia del mercato del lavoro e il significato stesso dell’esperienza lavorativa i cui tratti più evidenti sono riscontrabili nella flessibilità, nell’instabilità e nella continua mutevolezza.
Attualmente, date le radicali trasformazioni del mercato del lavoro, la flessibilità lavorativa è diventata un ingrediente strutturale della vita professionale di un numero sempre crescente di italiani al punto che la flessibilità lavorativa non rappresenta più una modalità d’ingresso nel mondo del lavoro ma una condizione professionale permanente. Questo processo, tuttavia, non sembra essere privo di conseguenze anche sulla salute, dal momento in cui agli individui è richiesto di gestire questi cambiamenti, adattandosi a situazioni e contesti di volta in volta differenti.
A lanciare l’allarme, una ricerca condotta in Gran Bretagna, e coordinata da Michael Marmot direttore dell’International Institute for Society and Health e professore di Epidemiology and Public Health alla University College di Londra. La ricerca inglese (che ha coinvolto oltre 23 mila persone tra i 45 e i 70 anni di sedici paesi Europei, compresa l’Italia) non è stata la prima a indagare i rapporti tra le nuove forme contrattuali, l’instabilità del mercato del lavoro e la salute. Tempo prima, la rivista Demography aveva sottolineato come la perdita temporanea dell’impiego può aumentare il rischio di sviluppare disturbi come ipertensione e malattie cardiovascolari o di andare incontro a infarto e ictus. Nel caso di licenziamenti a seguito della chiusura aziendale, in particolare, c’è l’83% di probabilità in più, vale a dire quasi il doppio, di sviluppare una nuova patologia, senza contare poi le ripercussione sulla salute mentale.
Secondo i dati emersi nel congresso della European College of Neuropsychopharmacology, l’insicurezza sul lavoro, la crisi economica e la precarietà possono provocare ansie molto forti: non a caso i problemi di salute mentale sono alla base di oltre il 40% delle domande di invalidità. Possono, infatti, insorgere forme di ansia, depressione, rabbia, mancanza di autostima, disturbi legati allo stress e all’instabilità emotiva. Le cause di tale disagio devono essere ricercate, in modo particolare, nel concetto di forza lavoro come risorsa esterna all’azienda ed utilizzata per il tempo strettamente necessario a raggiungere lo scopo per cui e stata assunta. al termine del contratto l’individuo cessa di lavorare, pur avendo raggiunto gli obiettivi aziendali. Tale situazione genera, inevitabilmente, un calo di autostima e una continua messa in discussione di se stessi, che nella maggior parte dei casi si manifesta in disagi psicosomatici. Altre cause di tale disagio sono riconducibili all’aumentato senso di precarietà e conseguente insicurezza della condizione lavorativa, cosi come ad un accresciuto livello di insoddisfazione e disaffezione lavorativa. La condizione degli “atipici” sembra, per certi versi, essere simile a quella dei lavoratori affetti da burnout e provocare, dunque, anche delle conseguenze di tipo esistenziale.
L’aspetto che viene maggiormente intaccato e, infatti, la caratteristica costitutiva dell’uomo: l’essere non determinato alla nascita e, quindi, l’avere come compito principale quello di auto costruirsi utilizzando gli strumenti, i metodi e i progetti che la cultura sociale in cui nasce e si sviluppa gli mette a disposizione. Fino ad una decina di anni fa il lavoro rappresentava per gli individui le fondamenta su cui sorgeva l’identità professionale, sociale e personale. Con l’introduzione dei contratti atipici la situazione è completamente mutata: la stabilità è limitata nel tempo, il compenso non sempre proporzionato al titolo di studio e alle competenze, le possibilità di carriera inesistenti, la tutela del lavoratore pressoché nulla. Questa mancanza di certezze e di stabilità può avere delle ripercussioni nella vita personale e familiare degli individui: si tende a rimandare la scelta relativa al matrimonio, alla convivenza, ad avere dei figli, ad uscire dalla famiglia di origine o ad acquistare una casa.
Per questi motivi si ritiene del tutto plausibile introdurre il costrutto “precarietà di vita”, definita come la condizione di fragilità, impotenza e paura circa il proprio futuro professionale che può manifestarsi proprio nei lavoratori atipici. Tale condizione è pervasiva nella vita del lavoratore, in quanto sebbene nasca da un contesto di tipo professionale, si manifesta anche nella sfera privata, personale e familiare, mettendo a rischio anche le relazioni interpersonali. Per questi motivi, la “precarietà di vita” può a ragione considerarsi una nuova forma di disagio esistenziale le cui caratteristiche sono: la sfiducia e l’assenza di progettualità professionale e personale.
La mancanza di interesse circa il lavoro che si svolge induce un atteggiamento di distacco, freddezza e indifferenza che porta l’individuo a vivere negativamente la propria esperienza lavorativa e a disinnamorarsi molto presto del proprio lavoro. Il disinteresse può essere dovuto sia alla consapevolezza che il lavoro e “a termine”, sia dalla frustrazione derivante dal fatto di svolgere lavori lontani dal proprio percorso di studi, e, dunque, dalle proprie ambizioni. La difficoltà a proiettarsi nel futuro professionale e la paura di dover vivere cercando continuamente una nuova occupazione generano un profondo senso di smarrimento e sfiducia, che possono minacciare lo sviluppo del sé professionale, uno degli elementi più importanti dell’identità personale e in questo senso la condizione di “precariato stabile” metterebbe a rischio anche la salute psicologica e la vita privata dei lavoratori.
Le ricerche più recenti sulla valutazione degli effetti psicologici e sociali del precariato sembrerebbero proprio avvalorare queste tesi. Le ricerche, nello specifico, fanno riferimento ad una tendenziale invadenza del lavoro precario sulla vita quotidiana che ne risulta pesantemente condizionata. Analizzando lo scenario della flessibilità lavorativa si osservano, infatti, conseguenze importanti ricadenti sulle biografie, sulle vite personali. Questa condizione di precarizzazione, di rischio e d’incertezza che investe ogni forma di lavoro e dentro cui – citando Bauman – anche la posizione più privilegiata può rivelarsi meramente temporanea e fino ad ulteriore comunicazione, conduce a sentimenti dove “l’angoscia abbandonica”, d’insicurezza strutturale e la disseminazione di paure fondano l’insorgere di un malessere senza nome, proteiforme, volubile e variabile rispetto a cui anche l’ottimismo farmacologico più aggressivo è costretto a cedere le armi. La paura di perdere il lavoro, di fallire anche dal punto di vista della vita familiare e sociale, di invecchiare, vale a dire di raggiungere un’età in cui il contratto non può essere rinnovato, fa nascere nei lavoratori un senso d’impotenza nella possibilità di rivendicare miglioramenti nelle loro condizioni di salario o retributive, perché in questo caso il loro contratto rischia molto probabilmente di non essere più rinnovato. Ciò mette in condizione di accettare molti compromessi che finiscono quasi per annullare nelle persone la coscienza di sé e dei propri diritti. Altre volte il senso d’impotenza e di disagio non riaffiorano, per meccanismi di difesa più inconsapevoli. Ci si uniforma così alla nuova “etica lavorativa”, si tende a far propri i valori aziendali. Tuttavia, tali strategie inconsapevoli sono più preoccupanti di una manifestazione di sofferenza lucida, dolorosa, ma che lascia aperta la possibilità che nasca una reazione, un desiderio vitale di cambiamento.
Gli individui, inoltre, vivono una vera e propria destrutturazione della temporalità, dove il passato non è passato, e perciò non concede al presente di accadere e al futuro di avvenire. La vera perdita di cui ci si lamenta, e di cui ci si auto-accusa, non è tanto la perdita del denaro o altro, ma la perdita della possibilità di fare esperienza, cioè di non essere al mondo nella modalità umana della trascendenza, che da un passato rinvia a quel futuro autentico che ha i caratteri dell’e-vento e non del già avvenuto. Sappiamo bene che la scarsa stabilità lavorativa crea nelle persone notevoli difficoltà o l’impossibilità a fare progetti di vita, o di ottenere credito o finanziamenti, per comprare una casa o pensare di programmare il concepimento di un figlio. Infatti, il futuro, rispetto al passato, contiene una differenza qualitativa che si esprime nell’ordine della creatività di cui il passato è completamente privo. Vivere il futuro come il passato significa aver perso ogni elemento creativo, ogni possibilità di progetto. Spariscono anche le figure temporali la cui essenza, come afferma Minkowski, è nelle proiezioni a-venire: l’attività, il desiderio, la speranza, la volontà, l’esperienza vissuta del bene e del male che, sconvolta, è alla base delle idee di colpevolezza. Attraverso l’attività – scrive sempre Minkowski – noi tendiamo verso l’avvenire, nell’attesa viviamo, invece, il tempo in senso inverso: vediamo l’avvenire verso di noi ed attendiamo che divenga presente. Con la chiusura del futuro, oltre al desiderio che, superando l’attività e le opere che essa ha realizzato ci dà la capacità di attribuirci un avere, si estingue anche la speranza, che fonda e rende possibile la vita come orizzonte che si apre e dischiude. Il presente si riduce in una prigione che esprime alla lettera il senso di solitudine che nasce dall’impedimento d’ogni relazione sociale.
Quando crolla la fiducia nella realtà interpersonale, la disperazione finisce col condurre alla solitudine. Se in un individuo si rende impossibile il superamento del passato attraverso i piccoli gesti, i comportamenti abituali che collaborano alla costruzione dell’avvenire, la libertà gli si riduce alle modalità ossessive del rimorso, del rimpianto e del ricordo le quali, assediandogli il presente, lo rendono incapace di costruire il proprio futuro perché imprigionato in quella monotona riproduzione del passato.
Lo stato d’allarme permanente, il presentimento di pericoli incombenti, fanno insorgere forme allarmanti d’insicurezza, instabilità emotiva, di stress, alla base di quella classica forma, comunemente riferita, di esaurimento nervoso, che in seguito molto probabilmente potrà essere la causa del peggioramento delle condizioni lavorative. Una delle manifestazioni più frequenti dal punto di vista psichiatrico del cosiddetto esaurimento nervoso è la depressione che intesa come categoria nosologica, è una sindrome, un processo patologico che non può essere spiegata solo da semplici fenomeni biologici. Può rappresentare una reazione normale ad un avvenimento molto doloroso, ma il prolungarsi delle cause favorisce il prolungarsi dello stato emotivo e quindi, può sfociare nella patologia o, in alcuni casi, manifestare quegli aspetti dello stato d’animo malinconico rappresentati non solo dalla tristezza, dal rimorso o dalla paura, ma da una sorta di catastrofe psichica che sconvolge il soggetto nella profondità del suo essere. La depressione inoltre, dal punto di vista dello studio sui disagi lavorativi, non va considerata solo come un disturbo psichico, una malattia che può colpire un soggetto, ma come una situazione esistenziale in cui nella vita ci si può ritrovare e che inevitabilmente riporta ad uno specifico stato d’animo.
Fonti
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