Milena era una ragazza di Nule e Bolìn era un moro. Si incontrarono e lui convinse lei a seguirlo nei campi e nei boschi. Inizio di una storia d’amore? Beh, sicuramente sì. E a doppio lieto fine, perché la tessitrice Milena trovò (forse) l’amore, ma imparò anche che da molte erbe e piante si possono ricavare tinture per la lana e quindi da quel giorno le sue coperte furono colorate e vivaci, ben diverse da quelle tessute con la lana del colore naturale delle pecore sarde: bianco, grigio, marron e nero.
Sembra un mito antichissimo; in realtà si tratta di un racconto settecentesco, che spiega romanticamente perché a Nule (Sassari) gli odierni tappeti sono tra i più “vistosi” – in senso buono – di tutta la Sardegna, pur mantenendo disegni e struttura assai semplici.
In realtà persino i tappeti come li conosciamo oggi sono un’invenzione relativamente moderna. Fino agli anni ’40 del XX secolo, infatti, a Nule si tessevano coperte o copricasse non tappeti, che sono oggetti completamente estranei alla tradizione sarda, dove nemmeno nelle case più ricche si usava coprire i pavimenti. Fu l’intervento di Eugenio Tavolara (Sassari, 1901 – 1963), grande artista e designer, con la collaborazione della volitiva tessitrice nulese Chiriga Dettori (Nule, 1898 – 1996) a semplificare il lavoro di tessitura sui telai verticali tradizionali rendendo le coperte, di fatto, tappeti, stuoie per la precisione, con disegni identici e speculari sulle due facce del manufatto.
Manufatti da allora assai più spendibili, più adattabili all’arredamento moderno, assai meno delicati, molto più duraturi, praticamente impermeabili. E questo io amo particolarmente delle stuoie di Nule: il loro aspetto ruvido, un po’ rigido, ispidino e semplice.
Semplice, ovviamente, all’apparenza: il lavoro sul telaio verticale è comunque duro, un intreccio di colori su un ordito bianco fatto tenendo a mente il disegno e calcolando e ricalcolando continuamente i fili da passare e sistemare con l’aiuto di una canna (sazu) e da compattare con una sorta di pettine di legno detto pettenedda.
E il telaio stesso è lavoro: se oggi molti telai sono di metallo, un tempo erano opere di falegnameria che venivano costruite direttamente dentro le stanze dove le donne avrebbero passato gran parte del loro tempo, un tempo che veniva comunque dopo quello dedicato alla casa, ai figli e al marito. Solo pochissime infatti erano tessitrici “di professione”; oggi invece le donne nulesi – la tessitura dei tappeti rimane infatti loro appannaggio esclusivo – sono anche imprenditrici o svolgono la loro attività riunite in cooperative.
Leggo sui libri alcune descrizioni del lavoro risalenti a un secolo fa: immagino la tosatura e poi il lavaggio e la cardatura della lana e mi figuro le filatrici con le mani segnate, veloci e abilissime, produrre il filo e farne matasse e gomitoli; vedo le donne con i fazzoletti in testa e i piedi scalzi tirare i fili dell’ordito per le stradine del paese, in una operazione collettiva, di vicinato. Ho letto di quest’usanza, che oggi fa tenerezza, di nascondere una caramella nel cuore del gomitolo, in modo che, una volta esaurito, rimanesse un tesoretto dolce da condividere tra amiche.
Oggi certamente queste operazioni sono più semplici e più veloci e alcune artigiane elaborano, esprimendo con più libertà la propria vena artistica, i motivi tradizionali, che non sono molti, ma che hanno forza proprio in virtù della loro semplicità. Ci sono le fiamme, i calici (sos calighes), sas rosas antigas, i pettini (sos pettenados), su fruninzu (il florilegio) e il motivo più originale di tutti: le sanguisughe (sas ambisues).
Questi pochi decori sono un’espressione spontanea di simmetricità e di alternanza del colore che si ritrovano nei tappeti di moltissime comunità sparse per il mondo, non solo nel bacino del Mediterraneo. Una sorta di “sentire comune” che deriva da un lato dal bisogno di ordine che l’occhio umano ricerca naturalmente, dall’altro dal senso del bello condiviso da molte diverse culture.
Moltissimi altri sono i tappeti sardi tradizionali, moltissimi i paesi dove la produzione di tappeti – con i più diversi stili – è un capitolo importante non solo dell’economia, ma dell’identità stessa della comunità. Moltissime sono le botteghe artigiane isolane da visitare e moltissime le cose da sapere su questo lavoro, la tessitura, che si è evoluto oggi da fatica quotidiana a vera espressione d’arte.
Consiglio una visita al Murats (Museo Unico Regionale Arte Tessile Sarda) di Samugheo (Oristano) per averne una buona panoramica accompagnati da guide molto competenti e di dare un’occhiata al sito dell’Archivio dei saperi artigiani del Mediterraneo. Un ottimo libro da consultare è invece Tessuti. Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna di Ilisso.
Dal canto mio la scorsa fine settimana ho fatto un bel giro delle botteghe (apposentos) aperte per la manifestazione annuale Nule. Idda ‘e manos bonas (che potremmo tradurre con “il villaggio delle abili mani”), ho fatto tantissime fotografie a loromos e tappetos (gomitoli e tappeti), ho conosciuto gente nuova e ammirato le loro opere.
Ora scrivendo e riguardando i miei scatti rimango a sognare di possedere un giorno un tappeto grande, grande come tutta la casa, che, però, vorrei dei colori delle pecore sarde, i colori della lana di prima che Milena incontrasse il suo moro Bolìn.
Grazie!!
Affascinante! Non mancherò di visitare il museo andando questa estate in Sardegna
Che bello questo articolo! Apre un mondo nuovo su qualcosa di così comune come il tappeto e ci fa sognare con gli splendidi colori delle bellissime immagini.