Già dagli inizi degli anni ‘80, con la diffusione delle prime forme di comunicazione telematica, figlie dell’era digitale, che di lì a breve avrebbe padroneggiato il nostro avvenire, si è percorsa una strada che ci ha portati ad un presente digitalizzato in ogni suo manifestarsi.
Computers e cellulari sono diventati i mezzi con cui si comunica e nei quali immettiamo i contenuti del nostro sapere e svago quotidiano: i files compressi.
La comunicazione scritta, più di tutte, è quella che ha maggiormente risentito di siffatta metamorfosi:ormai immemore delle sue origini fatte di calamaio e penne a sfera, è veicolata da sms, mms, mails e chat. Queste modalità di comunicazione ci inducono ineluttabilmente verso la sintesi espressiva, all’utilizzo (quasi inconscio) di una scrittura breve, sempre più breve, che deve contenere un numero ridotto di caratteri e comunicare al nostro destinatario quanto più possibile.
Siamo la generazione del short message, che va perdendo in maniera vistosa il contatto fisico con il materiale bibliografico, che non sfoglia più pagine ingiallite di libri trasudanti storie, culture e saperi antichi ma che “clicca” sulla tastiera di un pc, quando vuol avere un’informazione.
I fruitori principali di questa scrittura di rete o digitale sono certamente gli adolescenti, protagonisti tuttavia di un generale impoverimento della società e della mortificazione della nostra cara lingua italiana che sui banchi di scuola anzitutto, e nelle pagine online dei vari social network poi, viene quotidianamente deturpata con indegne abbreviazioni e tradita nell’uso improprio dei suoi caratteri grafici.
E l’utilizzo degli opportuni registri linguistici conformemente al contesto comunicativo di riferimento, che fine ha fatto? Il linguaggio scritto colloquiale, che i ragazzi adottano per comunicare tra loro, non è accettabile nelle pagine di un tema scolastico, giacché se non fatta con accortezza e scrupolo, la sintesi porta inevitabilmente ad impoverimento, perdita e vacuità di contenuti.
Sono, i giovani d’oggi, figli di un’epoca del “copincolla” che vuole – e trova – già tutto pronto e arriva ai contenuti in maniera diretta e immediata, tralasciando la fase della ricerca, animata dalla curiositas che tutto muove (muoveva?) e porta in nuce l’embrione della conoscenza.
Una volta superato l’iniziale abbaglio dato dai vantaggi che offre la tecnologia più avanzata, ci si rende conto che queste nuove generazioni di ragazzi sono esposte ad un grande rischio, quello della passività intellettuale. Ci si arriva con la fretta di sapere e la pigrizia di cercare, con la disattenzione di chi dovrebbe tutelarli ed indirizzarli all’approfondimento ed invece li affida a televisioni, computers e playstations, mezzi preposti all’assunzione di un ruolo – che non è il loro – fondamentale nella formazione di un adolescente: la genitorialità.
La fruizione bulimica, compulsiva ed approssimativa del sapere, ha spogliato della sua necessaria ed immancabile pragmaticità il processo conoscitivo di ognuno di noi. Il bambino inizia a conoscere ed esperire anche con la manualità del e nel gioco; ebbene, come può riuscirci, oggi, se viene assorbito già nell’infanzia dal mondo virtuale dei videogames? Come può imparare a conoscersi, conoscendo a sua volta i propri limiti, attitudini e capacità, se catapultato nella megalomania e deliro di onnipotenza che i giochi virtuali gli propinano? E’ evidente che s’è rotto il filo conduttore che ha sempre legato le nozioni astratte con la realtà concreta: l’esperienza diretta, il contatto fisico con le “cose”. Per conoscere non è sufficiente pensare, ma vedere, toccare, sentire. Necessitiamo, quindi, del contributo della sensibilità.
Secondo l’AIE (Associazione Italiana Editori) solo il 5% dei giovani non usa il pc, e il 91% di essi è internauta. Questo dato non fa che confermare quanto il loro modo di vivere, studiare, informarsi, comunicare e relazionarsi sia cambiato; come l’uso del tempo a disposizione sia stato stravolto rispetto al passato (non tanto remoto), agevolato e semplificato spesse volte, impoverito … anche.
La chat ha innegabilmente aperto un varco a favore della comunicazione impedita dalla lontananza. Ha reso possibili i legami personali rompendo ogni barriera, dando multiformi sembianze alle forme della conoscenza. E’ divenuta il luogo virtuale dello scambio, dell’amicizia e dell’amore in ‘tempo reale’. I nostri figli e nipoti dedicano tantissimo tempo a questa forma di comunicazione, interagiscono a distanza e spesso superano la timidezza che, da adolescenti, può comprimere i sentimenti e bloccarne il manifestarsi. La chat, dunque, non “arrossisce” ma sta via via divenendo il surrogato dei rapporti umani veri e ‘fisici’, e lo schermo del pc il sostituto di noi stessi, di loro stessi.
Destreggiarsi in questo sistema che ci ha reso bisognosi del “mostro” tecnologico e che rende nel contempo impellente la necessità di trovare un equilibrio nell’uso che ne facciamo, non è semplice.
Tanto meno lo è impedire che, di questo passo, la salutare spensieratezza adolescenziale si traduca in accidia irreversibile il cui spettro, ahinoi, si rende ogni giorno più palese.
Una possibile comprensione di tale fenomeno ha probabilmente una spiegazione socio-antropologica. Non possiamo negare che il presente sia angosciosamente problematico, soprattutto per chi, nel 2012, sta ponendo le basi del proprio avvenire; esso è sentito dai giovani come foriero di insicurezze ed incertezza. E conoscere il passato, ciò che siamo stati fino a ieri, è fondamentale per loro che dovrebbero pianificare ciò che diventeranno. Costruire un continuum tra passato e futuro facendo i conti con un presente provvisorio ed inafferrabile fa paura e toglie loro l’input alla progettualità, immergendoli in una quotidianità che non può permettersi il lusso di immaginarsi un avvenire, per il rischio di imbattersi nella disillusione, ladra di sogni. Non è quindi una loro colpa quella di non riuscire a proiettarsi oltre la propria circoscritta dimensione esistenziale, bensì una necessità. La loro estraneità dalla storia è diretta conseguenza del contesto sociale, culturale e politico in cui si trovano a vivere. La responsabilità, piuttosto, andrebbe attribuita ai media (possessori, in larga parte, del monopolio del’informazione) che forniscono un’enorme quantità di notizie ma con un livello di complessità ridotto ai minimi termini. Li bombardano di informazioni-flash, spettacolarizzando gesti ed eventi riprovevoli, creando solo confusione nell’apprendimento. Tutto cambia velocemente intorno ai nostri ragazzi, l’effimero diventa eterno e, inconsapevoli, sono derubati degli strumenti critici atti a comprendere la complessità storica di cui fanno, facciamo parte. Sono vittime di un sistema che si serve di loro per avere una ragion d’essere.
Agli educatori, genitori, familiari e docenti l’arduo compito: fermarsi. E provare a dare una brusca frenata al vortice frenetico che fagocita le nuove generazioni, ricche del superfluo ma povere del necessario.
Insegnar loro ad approfondire le proprie conoscenze e a non sposare la logica aberrante del consenso “a tutti i costi” e l’omologazione con il gruppo, bensì a crearsi un proprio spirito critico senza il timore di rivendicarlo, anche se dissonante rispetto alla massa.
Fonti:
Futurologia scienza della speranza, Antimo Negri, pan editrice milano.
L’uomo in rivolta, Albert Camus, Bompiani.
http://www.aie.it/