Copertina libro
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Negli ultimi tempi fioriscono finalmente alcune importanti traduzioni di opere letterarie dall’arabo all’italiano, figlie dell’impegno svolto negli ultimi anni dalla scuola guidata da Isabella Camera D’Afflitto. In questo caso emergono dalla sabbia del deserto Libico i racconti di Ibrahim al-Koni, pubblicati dalle edizioni e/o.

Una veloce premessa: la Libia è ancora oggi un paese sconosciuto ed inesplorato, soprattutto dal punto di vista storico e letterario. Le short news che ci vengono proposte sono prevalentemente incentrate sulla ricchezza dei suoi sottosuoli piuttosto che su approfondimenti riguardanti altri risvolti. Permane inoltre l’idea storiografica che il paese sia stato colonizzato in maniera bonaria e tutto sommato meno crudele rispetto ad altre tipologie occupazionali.
Ecco invece giungere tradotto il racconto dell’altro, quello che pone al centro della narrazione l’abitante autoctono che vive e subisce il deserto, il vero e proprio tuaregh (al-Koni è nato e vissuto nell’oasi di Ghadames, nel deserto occidentale ai confini con l’Algeria).

La dura vita degli abitanti del deserto è rappresentata con un via vai continuo teso a rincorrere il proprio mantenimento, alla ricerca dei wadi, letti di antichi fiumi che a volte ricevono piogge improvvise che aiutano a ritemprare corpo e anima.
L’orgogliosa libertà di cui vogliono godere i nomadi del deserto libico vengono narrate sotto forma di detti tramandati oralmente dagli anziani sheikh, vere e proprie odi di amore e di rispetto per la tempistica con la quale si aspettano pazientemente e miticamente i frutti degli avvistamenti spesso irreali di fiumi, uccelli magici, foglie miracolose di ritama, palmeti, musiche di flauti dolcemente ascoltate e che rendono l’ambiente una meraviglia unica ed ancora più immensa.

Una vita, quella delle fiere tribù tuaregh, all’insegna della continua rincorsa, del continuo vagare fra oasi ed altopiani (in particolare molte storie sono ambientate nell’Hamàda al Hamrà, l’altopiano rosso, una distesa di pietre e sassi nel deserto occidentale tra Tripolitania e Fezzàn) e che nulla invidiano alla gente di città, di collina, di montagna e di pianura: la vera libertà, sostengono i personaggi dei racconti di al-Koni, è l’assenza di recinti, di costrizioni di proprietà, di stabilizzazioni in un determinato terreno e di paure. Solo il deserto risponde ad un limpido ed omogeneo criterio di libertà e per questo va rispettato:

[“Perchè Iddio ha creato il Sahara deserto?”
La nonna non smise di dondolarsi a destra e a sinistra con il suo otre pieno di latte, però la fissò incuriosita. Sorrise prima di risponderle:
“Perchè sia un rifugio per chi vuole essere libero”.
Anche Tazidirt sorrise. Spostò lo sguardo dalle fiamme nel focolare al volto affilato della nonna. Dopo un attimo di silenzio tornò a chiedere:
“E gli abitanti delle città sono schiavi?” “Certo che lo sono” rispose la nonna senza esitazione.
“E gli abitanti delle oasi?”.
La nonna annuì, prima di confermare con le parole:
“Anche loro sono schiavi. Chiunque accetti di vivere alla mercé di un altro mortale è uno schiavo, come pure chiunque dorma sotto un tetto o al riparo di muri, o si sia stabilito su una terra”.
“E gli abitanti della foresta? Anche loro sono schiavi?”.
La nonna fece cenno di sì con la testa, e Tazidirt incalzò:
“Ma loro non dormono sotto un tetto né al riparo di muri”. “No, ma laggiù vivono alla mercé della paura. Come può essere libero chi dorme e al tempo stesso trema di paura per una tigre o un serpente?”. “Ma nel deserto l’uomo muore anche per la siccità”. “Muore e ne è cosciente. L’uomo deve morire se vuole essere libero”].

A volte non tutti riescono a resistere alla dura legge del silenzio e del nomadismo permanente, allora si decide di prendere il proprio cammello ed uscire dal deserto, cercando di cambiare vita e diventare schiavo e sedentario, raggiungendo dopo giorni di intenso cammino la città e la sua modernità. (“Dove vai beduino? Dove?”)
La strada percorsa incrocia quella di una nuova dominazione, quella europea, la strada della assoluta libertà incrocia quella della costrizione forzata ed irreggimentata, quella che deporterà i nomadi della vicina Cirenaica, abituati al movimento continuo, all’interno di recinti chiusi da fili spinati. L’incontro tra questi opposti non può essere assolutamente concepito e quando sullo sfondo di quelle città occupate emergono figure “reali” mai sentite prima, l’obbligatorietà di certi atteggiamenti provoca sentimenti di incredulità ed estraneità.

[Il beduino non si mosse perché non aveva capito. Lui non negava di aver sentito parlare del “re”, ma il deserto non gli aveva insegnato il significato di quella parola].

Nelle rare occasioni di dibattito sui danni causati dal colonialismo italiano in Libia, ben poche volte ci soffermiamo a sottolineare che l’imposizione di nuovi modelli costrittivi hanno giocato negativamente e principalmente a livello psicologico e sociale. Come potevano rispondere se non con il rifiuto le popolazioni nomadi del deserto della Libia a questi nuovi sfruttatori? Questo è quello che cerca di trasmettere al-Koni nei racconti ambientati nel periodo coloniale, cercando inoltre di mettere in evidenza alcune nefandezze ancora da risolvere, ossia il problema dei terreni cosparsi da mine disseminate dagli italiani nel territorio e ancora in attesa di essere bonificati.
La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto è dunque un libro da leggere perché in esso si può impostare un ragionamento antropologico e storico delle popolazioni nomadi del deserto libico, tra universi favolistici e mistici che la vita nelle distese sabbiose evoca, con alcune importanti narrazioni incentrate su di un periodo ancora troppo sconosciuto e visto finalmente alla luce di chi, quel periodo, lo ha subito tragicamente.

Ibrahim al-Koni
La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto
Edizioni e/o

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