Il Cairo
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Il mondo arabo, almeno come concetto, è ben noto a tutti. Meno note sono le peculiarità dei paesi che ne fanno parte. Il mondo arabo è una regione vastissima, che si estende dall’Oceano Atlantico sino al Golfo Persico, includendo più di venti nazioni, alcune delle quali lontane dall’immaginario collettivo, come la Somalia o le isole Comore, altre più familiari, quali ad esempio Egitto e Siria. Paesi che pur avendo delle similitudini, sono profondamente diversi e frammentati, con numerose minoranze, etnie e religioni.

Nonostante le differenze, la lingua araba accomuna questi popoli, seppur con una fitta rete di dialetti locali e alle volte un fenomeno di bilinguismo. La lingua araba ricopre in questa parte del mondo un ruolo molto importante; non solo è mezzo comune di comunicazione tra diversi popoli, ma è anche la lingua in cui il Corano fu rivelato al profeta Maometto. In questo modo gli arabofoni, la maggior parte dei quali segue la fede islamica, si sentono in una posizione privilegiata rispetto al resto dei musulmani, potendo capire il loro libro sacro senza ausilio di traduzioni, e facendo della lingua un motivo di vanto comune.

Nel secondo decennio del 1900, più per ribellione all’Impero Ottomano che per orgoglio linguistico o senso di appartenenza ad un’unica realtà, iniziò a farsi spazio tra le ideologie del tempo il concetto di panarabismo, raggiungendo il suo culmine tra gli anni ’50 e ’60. Questa corrente di pensiero vedeva tutti i popoli arabi riuniti in una sola nazione, accomunati da una lingua e cultura simile, indipendenti dalle colonizzazioni europee, e con una propria identità. Uno tra gli esponenti più importanti del panarabismo fu Gamal Abdel Nasser, presidente egiziano dal 1956 al 1970, che ricevette appoggio da diversi altri stati arabi, e tentò di arabizzare l’Egitto. Il panarabismo iniziò a perdere credibilità e declinare successivamente alla disfatta araba nella Guerra dei Sei Giorni con Israele, nel 1967. Non molto dopo, il panarabismo e il sogno di una nazione araba fallirono definitivamente; in Egitto specialmente per via della politica di Sadat, successore di Nasser, incentrata sull’Egitto e non su una nazione araba.

È interessante come nonostante una delle figure chiave del panarabismo sia stata egiziana, in questo paese non si è in realtà sviluppato nessun tipo di “arabizzazione”, intesa come sentimento di appartenenza ad uno stato arabo o ad un popolo arabo. Il gran numero di caduti nelle file dell’esercito egiziano durante la Guerra dei Sei Giorni fu uno dei principali motivi di declino della comunque flebile influenza del panarabismo nel paese, sconfitta che portò gli egiziani ad interrogarsi sull’effettiva utilità e convenienza di uno stato unico. Anche le numerose occupazioni precedenti all’era di Nasser, che hanno lasciato la loro influenza nella popolazione, sono state motivo di un crescente nazionalismo egiziano contrapposto ai colonizzatori stranieri.

Gli egiziani non si sentono arabi. Parlano arabo e sono in maggioranza musulmani, ma l’Egitto ha sempre avuto e ha tuttora una forte identità propria, che ha reso difficile il radicamento del panarabismo. Il popolo fa vanto ed orgoglio della sua storia millenaria e della sua discendenza dai faraoni, che si può racchiudere nell’espressione “masr umm el dunia”, che significa “l’Egitto è la madre del mondo”, la civiltà dalla quale tutto ha avuto inizio, la culla dell’umanità. La loro storia in primo luogo ha contribuito alla formazione di una forte identità egiziana.

Basta chiederlo a chiunque per strada, tutti risponderanno allo stesso modo: che sono egiziani, discendenti dalle dinastie faraoniche. La parola “arabo” ha infatti assunto un significato quasi negativo per loro, in quanto chiamano “arabi” le popolazioni dell’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo, per le quali non godono particolare stima per via della loro arroganza ed il loro sentirsi superiori, dicono loro (un’antipatia reciproca peraltro). Come potrebbero quindi loro sentirsi arabi?

In realtà, anche la genetica dà ragione agli egiziani, provando da un punto di vista scientifico che il popolo egiziano è un misto di etnie diverse. Dei recenti studi sul DNA sugli egiziani della zona di Luxor, nel sud del paese, hanno infatti rivelato che la maggior parte della popolazione ha radici africane, e la componente genetica araba è estremamente ridotta (meno del 7% della popolazione ha origini arabe).

Ad essere sinceri, le differenze tra gli egiziani e gli altri popoli arabi (o anche solo mediorientali), ci sono e sono parecchie. Inizialmente possono non essere notate, vista la profonda influenza che la religioni, comune agli altri paesi arabi, ha sulla società nella vita di tutti i giorni. Usanze e riti religiosi si svolgono in tutti i paesi islamici nello stesso modo allo stesso tempo. L’Egitto è si un paese del Medio Oriente, ma a metà tra il Mediterraneo e l’Africa. E l’influenza africana è più palese nel sud, partendo da Luxor sino a scendere al confine con il Sudan. Queste differenze si accentuano se consideriamo tradizioni, usi e costumi che non provengono dall’Islam, ma direttamente dall’era dei faraoni.

Nell’ultimo anno, un altro fondamentale avvenimento nella storia dell’Egitto contemporaneo ha contribuito a rafforzare l’orgoglio egiziano, ad accentuarne la forte identità nazionalista e a rafforzare il senso di appartenenza ad una stessa specifica realtà. Questo avvenimento è ovviamente la rivoluzione del 25 gennaio. Scendere in piazza e combattere per una causa comune ha aiutato a unire la popolazione sotto un’unica bandiera, senza distinzioni di religione, classe sociale o etnia. La prova che gli egiziani vogliono riprendere in mano del loro tanto amato paese, ma anche la loro dignità.

2 thoughts on “Identità egiziana: il caso del Panarabismo

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