di Anna Felicia Nardandrea
Un colto poeta orientale emigrato in una società cosmopolita e un gaudente libertino dal riso rabelaisiano: il profilo di Ibn Daniyal affiora distintamente dal suo teatro delle ombre e dall’illuminante studio di Francesca M. Corrao su «Il riso, il comico e la festa al Cairo nel XIII secolo».
L’opera di Ibn Daniyal, T ayf al-H ayal, di cui nel volume sono riportati alcuni frammenti testuali, è il filo conduttore per dipanare le linee di sviluppo della produzione araba comica e seguire le tracce evolutive del teatro delle ombre, dalle antiche origini indiane al passaggio in Cina fino all’approdo nell’Egitto del XIII secolo. Tracce dissepolte attraverso cui risalire al significato del riso e alle sue radici filosofiche, al valore d’uso dell’infrazione comica nel tempo della festa al Cairo, e marcare il confine tra divertimento “lecito” e “illecito” nella cultura arabo-islamica. Questioni preliminari su cui la studiosa si sofferma prima di introdurci, per progressivi accostamenti, nell’universo comico e nel realismo grottesco di Ibn Daniyal.
Frutto originale del fecondo sincretismo culturale di epoca mamelucca, quest’ opera buffa è radicata nel paganesimo della letteratura preislamica di intrattenimento notturno, e rischiara con le sue leggere ombre le epopee, i proverbi, le satire e le arguzie di origine persiana, greca o indiana. Distese tra un prologo religioso e un epilogo di riconciliazione con la Legge di Dio, sopravvivono nella scrittura di Ibn Daniyal le trame spettacolari comiche, intessute di gesti effimeri e parole volatili, che mimi, guitti e saltimbanchi affidavano al circuito dell’oralità e al linguaggio di piazza, trasgressivo e osceno. Tutto un patrimonio narrativo di eroi ambigui e saggi stolti che nelle culture mediterranee abitano il mondo alla rovescia della festa e dello spettacolo, sempre pericolosamente in bilico tra serio e faceto, ossequio alla lettera del Libro e disinibita promiscuità linguistica.
Ibn Daniyal frequenta questa cultura altra, multi etnica e multi religiosa, oscurata dal rigido monoteismo islamico e contrapposta alla serietà edificante della letteratura ufficiale, alla sacralità del discorso divino, alla verità dello spirito. E sempre esposta ai capricci di una alterna e volubile fortuna.
All’incrocio tra mondo arabo e mamelucco, in un’epoca storica segnata da fermenti culturali e radicali sconvolgimenti politici, il poeta, dotto al servizio di un emiro e oculista in un popolare quartiere del Cairo, «registra la sepoltura della cultura di una civiltà morente ma ne annuncia la rigenerazione» grazie all’ambigua fecondità del suo riso. Un carattere positivo, rigeneratore e creativo in più passi ribadito e sottolineato.
Il riso è universale e «il comico nella cultura islamica procede per raffronti», fa notare la studiosa citando l’intellettuale e critico marocchino Abdelfattah Milito. Anche nella satira licenziosa di Ibn Daniyal il meccanismo comico è innescato dal confronto tra l’astrattezza delle rigide regole della convenzione e la realtà: raffronti e capovolgimenti, operati a livello linguistico e di senso, che ricollocano l’alto e il sacro in una topografia corporea “bassa” e nella natura fisiologica dell’uomo. Incluso il poeta, che rovescia in risata impietosa la sua stessa umanità e il patrimonio delle sue vaste conoscenze.
L’accettabilità filosofica e religiosa del teatro delle ombre, metafora della concezione islamica del rapporto fra uomo e Dio o della illusorietà della vita terrena, ne sancirono la fortuna nel Medioevo. E tuttavia, l’opera di Ibn Daniyal, la più antica di cui ci sia giunto il testo, resta per secoli esempio raro di scrittura teatrale, se non unico.
Non incoraggiò lo sviluppo di forme drammatiche compiute e segnò l’apice di un genere in seguito considerato minore. Tra le interpretazioni critiche di questo ritardo e del disinteresse della cultura islamica per il teatro greco, accennate e riassunte in questo studio, suggestiva è quella del drammaturgo al-H akim, secondo il quale la fantasia degli arabi, influenzata dagli sconfinati orizzonti del deserto, avrebbe senz’altro preferito forme d’arte aperte e piene d’aria, come la musica, la poesia e il canto, alla vita circoscritta nel chiuso perimetro di uno spazio scenico.