dilemma del prigioniero
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Di Pier Gavino Sechi

Mai nessun periodo è stato così dirompente come questo nello scuotere alle fondamenta i nostri valori più radicati. Tutto ciò che prima ci appariva buono e positivo ora sembra diventato problematico se non minaccioso: vivere accanto agli altri, avere gesti di affetto, abbracciarsi diventa sia occasione per coltivare gli affetti e i sentimenti, sia occasione di contagio, mai la biologia è stata così nemica della chimica dei sentimenti.

Se prima di questo periodo avevamo imparato a non vedere più come dicotomie concetti opposti, oggi ciascun termine può addirittura coincidere col suo opposto, abbracciare può coincidere col far male. In questa prospettiva appare perciò persino superata l’univocità dei gesti, tendere la mano, avvicinarsi ad un altro poteva valere, se sincero, come segno di amicizia…ma ora? Anche se fatto con sincerità, di per sé potrebbe rovesciarsi nel suo contrario.

In attesa di riscrivere l’abicì della comunicazione e della prossemica, conviene allora approfittare dello smarrimento per ripassare alcuni concetti fondamentali e per registrare alcune prese d’atto che magari prima stentavano a farsi strada tra le granitiche certezze tipiche dei periodi di crisi solo strisciante.

Qualche giorno fa un autore dalla produzione scientifica assai interessante, Telmo Pievani, nel corso di un’intervista in cui ricollegava le scelte individuali e della nostra specie con gli effetti sull’ecosistema, ha forse come poche altre volte mi è capitato di sentire, trattato con cautela il concetto di egoismo.

Incitava quasi la specie umana ad essere egoista, ma in modo intelligente, al fine di rendere tollerabile alla natura la propria impronta ecologica, per evitare di rendere definitivamente incompatibile la vita umana con quella del pianeta. Un invito a considerare i limiti dello sviluppo non per amore per la natura (di cui a rigore anche noi facciamo parte) ma per amore verso noi stessi (che la cui perdita sia forse il vero problema…lo lasciamo ad un altro momento di riflessione).

L’approccio mi è risultato interessante, al di là del garbo antimillenarista con cui si è riferito alla specie umana e al pianeta Terra, soprattutto per aver messo l’accento su quella molla vitale da sempre condannata dalla morale che è l’egoismo umano. Per una volta da considerare non come un difetto di specie da rendere al più tollerabile (come a dire lo capisco anche se non lo giustifico), ma come punto di partenza.

Non è la prima volta che la provocazione è stata posta. Il tema appare centrale anche in un’opera che ogni umano dovrebbe conoscere intitolata Filosofia delle crisi ecologica di Vittorio Hösle, Milano 1999.

Ma può l’egoismo essere intelligente?  Non è invece cieco e quindi tutt’altro che intelligente?

Almeno per impostare la riflessione, qui sotto proponiamo il celeberrimo esercizio intitolato Dilemma del prigioniero (tratto dal primo libro Percorsi di formazione alla nonviolenza, Torino 1992).

Su questo tipo di gioco, che si inscrive nella letteratura dei giochi che insegnano a passare dalle strategie a somma zero (io vinco e il mio avversario perde) a quelle a somma diversa da zero (si vince o si perde insieme), si basa un altro interessante libro dal titolo Giochi di reciprocità di Robert Axelrod, Milano 1985.

A seguito della lettura quantomeno della descrizione dell’esercizio possiamo condividere o meno su una serie di brevi spunti di riflessione.

I giochi a somma zero sembrano adatti per ottenere beni materiali, ma appaiono poco efficaci per conseguire beni relazionali, come ad esempio, la reputazione, il diventare destinatari di sentimenti (essere amati, essere rispettati, etc.) ossia di tutti quei beni immateriali, in cima alla piramide di Maslow, che per “materializzarsi” hanno bisogno del libero e pieno coinvolgimento dell’altro.

Ottenere qualcosa, a costo della sconfitta di un avversario, implica doversi fare carico della sua gestione, non solo in termini materiali, come a seguito della cattura in guerra del nemico, ma soprattutto dei suoi sentimenti di rivalsa, insomma il rischio è che il vincitore finisca per diventare la guardia del nemico sconfitto.

Anche nei casi di strategie a somma zero che ammettano la ferocia dell’eliminazione fisica del nemico (per evitare il paradosso del punto precedente) si deve fare i conti con una considerazione contro fattuale (ed ecco perché difficile da contabilizzare, ma non per questo impossibile da calcolare): coll’eliminazione del mio avversario annullo le possibilità di conseguire beni relazionali.

Le strategie a somma zero sono efficaci ma non efficienti. Quante risorse si lasciano sul terreno nel struggere l’avversario? Ed è sempre vero che la ricostruzione post bellica è a sua volta l’industria più fiorente?  Peraltro oggi non possiamo più affidarci alla guerra come scopa della storia per via dell’ombra incombente dell’ordigno nucleare.

D’altro canto le strategie a somma diversa da zero hanno il problema di non disporre nel proprio bagaglio di ciò che William James nella sua opera L’equivalente morale della guerra, Pisa,  2016, chiamava proprio in questo modo (la guerra da questo punto di vista è sempre servita ad un ritorno estemporaneo dell’uomo alla natura…e al predominio dell’istinto sulla cultura).

Le strategie a somma diversa da zero hanno bisogno di una congrua quantità del fattore tempo per comunicare, entrare in empatia, conoscere e apprendere altre culture è richiesta una risorsa oggi molto rara: il tempo e non solo cronologico ma significativo e di qualità (come sapevano bene gli antichi greci e romani).

Il dilemma del prigioniero nella sua forma iterativa porta ad accostare il tempo alla memoria.

Esso concilia la contabilità con la cooperazione. Non ci può essere vera cooperazione se questa non si fa strategia efficace e resistente alle strategie opposte.

Resistere a strategie distruttive con strategie cooperative è morale, come morale per Hösle è non schiacciare l’egoismo specie se lungimirante e quindi intelligente…andrebbe aggiunto.

La costrizione all’isolamento delle scorse settimane ci ha messo di fronte a questo fattore per scoprire di non averne più consapevolezza.

Può essere questa la ragione della difficoltà a fare tutto ciò che come specie dovremmo saper fare e che invece in tutta velocità siamo costretti continuamente ad imparare (ma forse vanamente)?

L’egoismo in fondo diventa intelligente se sa contare tutti i fattori necessari per misurare l’efficacia di una strategia e l’intelligenza sta nel non limitarsi a contare le conseguenze dirette del proprio agire ma anche a considerare ciò che perdiamo oltre che ciò che guadagniamo.


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1 thought on “Il dilemma capitale: competere o cooperare?

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