La connessione tra le parole dono e musica contiene in sé delle declinazioni ormai consuete: il dono di un orecchio musicale, il dono delle sensazioni e delle emozioni offerte dalla musica e via discorrendo. L’aspetto che solitamente viene messo in secondo piano è il dono, altrettanto forte, che il musicista offre alla musica, il tributo che la musica e le attività necessarie pretendono per essere realizzata.
In un certo senso, il discorso che svolgeremo con Federico Tassani prosegue e completa il ragionamento fatto con Marco Di Battista sul welfare. Tassani, trombonista, è un musicista dalla sfaccettata attività musicale: è presente in formazioni anche molto diverse tra loro, dalle atmosfere dixieland dell’Ambassador Jazz Band al richiamo all’hard bop del Jazz Life Sextet alle derive etniche di Banda Olifante, derive che muovono dalla Romagna all’Africa, passando per la Sicilia, i Balcani e i mercati arabi.
Un musicista oggi deve organizzare diversi progetti, deve seguirli, deve costruire una squadra di lavoro con altri interpreti che collaborano insieme tra loro. Tassani si muove a tutto tondo nel suo lavoro. «La condizione odierna del musicista è decisamente forzata. Sarebbe stato impensabile, venticinque o trent’anni fa, pensare di essere impegnato in tante cose diverse: all’epoca si poteva fare una cosa sola, essere impegnato con continuità ed esserne sostenuto in maniera soddisfacente dal punto di vista economico. Il problema, ora, è che, non essendoci lavoro, bisogna inventarsi più cose per far quadrare i conti. Se penso al musicista di balera, non aveva tempo, da una parte, e necessità dall’altra di fare altre cose: negli anni ’70 e ’80 le orchestre facevano almeno 15 serate di inverno e 25 d’estate, aveva già suonato, viaggiato e “faticato” tanto da voler rimanere a casa nelle serate libere.» É un lavoro costante fatto di relazioni, di promozione, di dialogo con i vari interlocutori del mondo dello spettacolo. E c’è inoltre, anche il momento della consapevolezza, quando il musicista comprende come sia lui a dover dare alla musica molto, forse di più di quello che si ottiene in cambio, soprattutto volendo suonare generi creativi, meno “commerciali”: non è tanto il dono della musica in quanto talento, quanto il dono del tempo, delle forze e dei pensieri dell’interprete. «In realtà, il punto di svolta è stato intorno al 2000: fino a quel momento la richiesta di lavoro era tale da garantire una buona stabilità e una certa soddisfazione. Poco a poco, mi sono reso conto di come non si possa rimanere a casa con le mani in mano e, invece, ci sia il bisogno di un lavoro costante per procacciarsi i concerti: questo implica curare le proprie pubbliche relazioni, parlare con i club e gli impresari, farsi vedere sulla rete. Devi offrire un prodotto e devi, necessariamente, farlo conoscere a quante più persone possibile. Ho cominciato a ragionare in questi termini e lavoro in maniera organica per tutte le band in cui suono: sono entrato nella fase del musicista imprenditore, acquistando anche una maggiore consapevolezza. Se vuoi, una consapevolezza non voluta, nel senso che sono ancora del parere che il musicista non debba fare l’imprenditore, le circostanze però poi ti forzano a dover essere il tuo “impresario”.»
Per un romagnolo, è pressoché impossibile non aver mai gravitato nel mondo del liscio: «È ovvio che abbia fatto anche quello». Il percorso di Tassani comincia da ragazzo con l’orchestra jazz dei corsi civici di Rimini, per proseguire con gli studi classici e la lunga esperienza nella musica da camera e, verso i vent’anni, nelle orchestre sinfoniche. Nel frattempo, inizia a studiare tecnica jazz sul trombone con Roberto Rossi e Giancarlo Giannini ed entra a far parte di formazioni di livello nazionale come la Keptorchestra di Marcello e Pietro Tonolo. «Dopo un periodo in cui ho dovuto smettere di suonare, a metà degli anni ’90, ho ripreso con un gruppo che faceva etnofunk i Moxa e con cui abbiamo vinto Arezzo Wave, e, subito dopo, con il trombettista Stefano Serafini e il tubista Gianfranco Verdini abbiamo fondato la Caravan Petrol Band – una formazione dixieland, la progenitrice dell’Ambassador, se vuoi – con cui abbiamo rappresentato l’Italia al Ferrara Buskers Festival.»
C’è una molla – la necessità – che porta a fare molte cose diverse, ma c’è anche dall’altra parte una spinta a scegliere le cose da fare, a organizzare il proprio lavoro in un modo anziché in un altro. «Dal mio punto di vista, mi fanno sorridere i musicisti che dicono: “A me piace solo questo o quel genere!” Nella storia, il trombone ha avuto il suo momento di gloria negli anni ’40, quando esistevano musicisti come Tommy Dorsey e Jack Teagarden che erano virtuosi e direttori di band famose e molti brani, soprattutto quelli melodici, erano affidati al trombone. È ovvio che un trombonista preferisca suonare il jazz delle origini, ma a me piace tutta la musica: c’è stato il momento in cui ero innamorato di Ray Anderson e delle sue esperienze più libere.»
Ovviamente si fa tutta questa fatica per qualcosa che ti anima dentro. «La cosa più difficile, non lo dico solo io, è riuscire ad avere un suono riconoscibile. Questo diventa ancora più importante se si riesce ad essere riconoscibile nei diversi generi. Il riferimento in questo senso è Paolo Fresu, con la sua voce sempre ben presente pur nei vari progetti e negli incontri che porta sul palco. Questo è anche il mio obiettivo, con le varie formazioni.» E, in particolare, lo strumento: i fiati, e in particolare gli ottoni, permettono di comunicare in modo immediato, di porgere la propria voce all’ascoltatore in maniera diretta. «Suonare uno strumento a fiato permette di esprimersi con grande immediatezza rispetto alla chitarra o al pianoforte. Il trombone è uno degli strumenti che più si avvicina alla voce umana: ha una dinamica estremamente ampia, dal pianissimo al fortissimo, che altri strumenti non hanno. Tra l’altro è molto facile suonare male il trombone: lo dimostra il fatto che siano pochi i trombonisti dotati di un livello tecnico paragonabile a quello degli altri strumenti o, meglio, non sono molti quelli in grado di eguagliare i fraseggi più virtuosistici di Coltrane o dei sassofonisti moderni. In realtà questo è un ragionamento fuorviante: non ha poi molto senso e, comunque, non è così efficace riportare sul trombone idee provenienti da altri strumenti.» L’idea di scambio attraverso la musica e, in particolare, attraverso il jazz, diventa anche una delle chiavi per mettere in relazione generi diversi con la propria sensibilità. «Per quanto mi riguarda, ho maturato abbastanza tardi, verso i 35 anni: mi è venuto il bisogno di prendere e dare da tutti i generi musicali, la necessità di prendere stimoli da tutto quanto ascoltavo, interiorizzarlo e tirarlo fuori nelle mie performance. Anche in questo caso un dialogo tra quanto sento intorno e quella che è la mia espressione.»