“L’Ordine dei giornalisti dopo la vittoria elettorale dei partiti populisti rischia l’abolizione. Grillo persegue questo obiettivo da anni. L’Editoriale del numero speciale di Tribuna Stampa 2.0, il periodico della Federazione Nazionale Giornalisti Pubblicisti Italiani, è dedicato ad un dibattito sul futuro della professione giornalistica. I pubblicisti (milanesi) frattanto si preparano a una battaglia di sopravvivenza con la F.N.G.P.I.”
Ecco l’esordio di una lettera della neo costituita Federazione Nazionale Giornalisti Pubblicisti Italiani di qualche mese fa rivolta ai professionisti della stampa e che esorta giornalisti professionisti e giornalisti pubblicisti ad agire in maniera coesa per fare fronte ad una possibile abolizione dell’albo dei giornalisti, così come previsto dalla legge 69/1963, di modo che le due categorie possano superare l’attuale quanto inutile divisione e farsi promotrici di una nuova regolamentazione di modo che la tutela sarà finalmente equanime e garantita a tutti lavoratori che ne hanno diritto, diversamente da quanto accade oggi e di cui ben poco si discute.
Ottima e graziosa l’iniziativa, errata la premessa…
Se è assolutamente giusto e propositivo l’invito di sedersi ad un tavolo comune per discutere in maniera efficiente sul futuro del giornalismo in Italia, sarebbe altrettanto corretto farlo in maniera critica ed obiettiva, facendo un’analisi reale ed usando, possibilmente e tanto per cominciare, i termini in maniera appropriata: per populismo si intende un atteggiamento tanto culturale quanto politico che tende a privilegiare il popolo supportandolo con valori, principi e programmi ben definiti, ispirati per lo più da una demagogia del tipo socialista.
Infatti il termine prende il nome dal movimento populista sorto in Russia tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900 al fine di promuovere un miglioramento delle condizioni di vita e sociali di servi e contadini mediante una forma di socialismo istituito sulla comunità rurale contrapposto al socialismo occidentale di tipo industriale. Ma un partito popolare sorse anche negli States grazie ad un gruppo di operai ed agricoltori che aspiravano ad una forma di elezione popolare diretta, il ridimensionamento delle tasse di successione, la nazionalizzazione dei mezzi comunicativi e la libera di coniazione dell’argento; era il 1891 e con le elezioni presidenziali del 1908 il “People’s Party” venne di fatto sciolto. Andando qualche passo a ritroso nella storia, le idee politico-filosofiche di Jean Jacques Rosseau, dunque Rivoluzione Francese e Bonapartismo, hanno dato adito alla visione democratica di Simón Bolívar, di Juan Domingo Perón, di Hugo Chávez e del più recente Kirchnerismo, prevedevano proprio che fosse il popolo a prendere le decisioni, attraverso le consultazioni ed i plebisciti, purché nei limiti previsti dalla Costituzione Nazionale di riferimento.
Pertanto ciò che viene definito dalla mediocre stampa “populismo” può essere tanto democratico che costituzionale, quanto autoritario; esso ci è noto sia nella versione di centro-sinistra, attraverso Antonio di Pietro, quanto nella sua variante più conservatrice: il populismo di destra. E proprio quest’ultimo modello di populismo, se di modello è il caso di parlare, è quello attraverso cui In Italia si inizia a parlarne con accezione negativa a partire dal fascismo sino alla piaga del berlusconismo, o “piddismo berlusconista” se vi aggrada, piaghe politiche che hanno saputo calzare a pennello il senso più spregiativo del termine populista, grazie alla demagogia di cui sono stati capaci per decenni e grazie a quella strafottente spavalderia nel tentativo, per fortuna disinnescato, di prevaricare ogni limite di diritto previsto dalla Costituzione, al fine di accrescere in via definitiva il loro potere sulle istituzioni.
Dunque verrebbe da chiedersi a quale razza di populismo si fa riferimento in questo scialbo e pressapochista appello, privo di qualsiasi invito all’introspezione, all’analisi del mondo contemporaneo e dello stato reale dei fatti.
Oggi vengono chiamati populisti i cinque stelle, ieri capitava a quei vari partiti proletari, ormai orfani sia ideali che di quegli uomini intellettualmente e moralmente solidi per portarli avanti. Non è necessariamente un male, essere populisti. L’accezione negativa è usata ad hoc non solo dai giornali, ma suggerita attualmente dai maggiori partiti. Il problema è nell’incapacità di saper prevenire o quantomeno leggere il processo di materialismo storico in atto, una capacità che con la velocità di propagazione delle notizie dovrebbe poter competere oggigiorno più al giornalista che agli studiosi di storia da qui ad un ventennio e invece dovranno faticare più duramente per riportare notizie accurate e di qualità: parola dell’Ethical Journalism Network (EJN).
Potrebbe sembrare pure un discorso che non avrà mai fine ma un giornalista che si rispetti dovrebbe essere figlio del proprio tempo, non uno che legge notizie deformate, di seconda mano e che magari abbia wikipedia come fonte principale. La proposta di eliminare l’Ordine ci porta direttamente a chiederci: quale futuro per il giornalismo se il giornalismo stesso è incapace di cogliere anche per sé stesso quello che gli accade attorno? Se ne è parlato da diversi anni dell’avvento del web, una delle cause maggiori ad aver disintegrato le vendite dei giornali cartacei, eppure ci si è crogiolati mollemente nella supponenza, nell’errata convinzione che la sudditanza al potere ripaghi sempre e nella mancata intuizione che un codice etico e la formazione costante sono la vera rivoluzione di cui l’ordine ha bisogno.
Probabilmente non è solo una questione di innovazione tecnologica: si è persa la fiducia nella firma di un giornalista.
Se ci pensiamo le firme di punta oggi non somigliano neanche lontanamente a quelle di trent’anni fa; la formazione culturale e scientifica con la quale descrivevano gli autorevoli giornalisti di un tempo erano capaci di estrinsecare persino la conoscenza del territorio, erano esse stesse elementi di prezioso arricchimento per chiunque leggesse; i giornali erano una sorta di enciclopedia generalista. Oggi dovrebbero fornire informazioni più dettagliate e puntuali ed invece si affidano completamente ai contributi di anonimi freelance della conoscenza, fatte salve le dovute eccezioni per scrupolosi e validi elementi.
Ci vorrebbe un cambiamento generale a partire dalla maniera di concepire il senso di ogni professione e la relativa matrice deontologica.
Eliminando l’ordine dei giornalisti non si ottengono giornalisti migliori, ma si eliminerebbe una struttura burocratica assolutamente inutile ed anacronistica: non appoggia i giornalisti nelle situazioni difficili con le aziende, non fornisce gli strumenti legali per difendersi ed agisce come rappresentante fantoccio di categoria senza un peso vero nelle decisioni tra editori e giornalisti ad esempio e neanche sulla discussione riguardo alle leggi sull’editoria. È un organismo che esprime un parere ma non ha quella genuina autorevolezza tale da poter condurre una “action class” indispensabile alla difesa della categoria.
Ma poi, esiste davvero una categoria? Ci si riconosce in un mestiere chiaro, distinto da altri lavori simili nelle loro sfumature? Quando si è giornalisti e quando si è blogger ad esempio? Questi ultimi non vengono mai citati ma costituiscono indubbiamente anch’essi una fonte di conoscenza per molti, giornalisti professionisti compresi, eppure non vengono chiamati in causa nella fase di cambiamento che si vorrebbe mettere in atto, senza un dialogo costruttivo e senza un confronto serio con loro.
Possibilità di crescere ce ne sarebbero pure ma con questa dilagante gerontocrazia e nepotismo qui, in questo determinato ambito, come altrove non c’è ricambio. E non sempre il problema è di natura anagrafica: ce ne sono di giovani molto più conservatori dei padri, peggiorando con saccente spocchia la qualità della gestione del lavoro, nella misura in cui ci sono veterani molto più innovativi e che sanno mantenere meglio la rotta dell’etica professionale.
La proposta di Grillo, per certi versi, non è per nulla stravagante e risponde di fatto ad un’esigenza diffusa non solo tra i giornalisti, ma anche in altre categorie. Pensiamo ai commercialisti o agli avvocati, che per poter esercitare devono per forza fare 3 anni di tirocinio non pagato per poi poter dare l’esame di stato e finalmente iscriversi all’ordine. A cosa serve tutto questo, se non a creare un meccanismo elitario dispendioso per chi vorrebbe inserirsi nel mondo del lavoro, quando invece l’iter formativo si potrebbe svolgere proprio durante gli anni universitari?
Il futuro del giornalismo dipende dal valore etico, dalla bellezza e dall’utilità contenuta nell’informazione fornita all’utente. Al di sopra di questi tre elementi vi è soltanto l’alto grado di cultura, la responsabilità civile ed il senso morale di una nazione… che per fortuna del giornalismo mediocre e potere-asservito, quello che Grillo vorrebbe eliminare e nient’altro, è proprio quello che manca in una paese disinformato, corrotto e contorto come il nostro, un paese le cui istituzioni hanno accolto Berlusconi malgrado condanna ed interdizione. Sarà Berlusconi a salvare il centro destra, la destra, e la destra a sinistra, incluso il partito che ha violentato brutalmente gli ideali gramsciani coi quali siamo cresciuti e possibilmente è nata la libertà di stampa. Quindi perché preoccuparsi che la stampa più becera, la carceriera più infame ed irreprensibile della Verità sia a rischio estinzione?
D’altronde siamo stati anche testimoni del contrario: la politica peggiore ha fallito nell’intento di eliminare il giornalismo propositivo, l’ironia perspicace ed il racconto tristemente reale della cronaca attraverso la comicità. L’editto bulgaro di Berlusconi contro Biagi, Santoro e Luttazzi cosa mai ha risolto? E l’allontanamento di Grillo dalla rai?
Santoro, e magari sappiamo il perché, non ha mai smesso di lavorare, Biagi non meritava certo quel trattamento per non essersi asservito al padrone di turno e Grillo ha fondato un movimento politico fatto di cittadini, dato per spacciato ancor prima di essere efficacemente compreso, catalizzando da solo e a dispetto di tutto il 32% delle preferenze. Ma lo stesso Grillo, tanto demonizzato e fatto passare ingiustamente per il Torquemada del giornalismo, sa bene che, pur volendosi immedesimare in questo ruolo, fallirebbe in partenza perché fuori tempo massimo: è il giornalismo fatto coi piedi ed in mala fede ad essere il carnefice di se stesso. L’intenzione di abolire l’ordine può essere sfruttata da chiunque abbia capito che non serve questa tipologia di struttura per garantire la qualità del servizio d’informazione al cittadino, ma è l’ordine delle cose a dover cambiare. Per la qualità dei giornalisti e dei giornali ci pensa il mercato, persino quello falsato dai contributi statali, che dovrebbero andare solo ai giornali che si occupano di argomenti non commerciali, che fanno un servizio pubblico. Esattamente come avviene nella televisione.
Grillo ha ragione quando dice che andrebbe abolito il finanziamento pubblico, che la culla del giornalismo stesso scricchiola e che l’informazione è bella ed imbavagliata ma sbaglierebbe qualora pensasse di dover fare di tutta l’erba un fascio:
Occorre riformare, creare nuove regole, regolamentare i flussi di finanziamento e monitorarne l’uso, non abolire…
Ma fin tanto che la forma più deontologicamente disfattista di giornalismo sarà impegnata a mantenere il lettore ignaro dei fatti e lontano da quello che accade davvero nelle istituzioni e nel mondo cosa dovremmo mai tentare di difendere e su chi o cosa gettare fango nel vano tentativo di slavare il marchio indelebile dell’opportunismo, della scrittura faziosa, ipocrita e fasulla che appena l’altro ieri ha fatto scivolare l’Italia al 77° posto al mondo per la libertà di stampa ed oggi ad un casuale e comunque inglorioso 52° posto?
Come si risolve questa vergogna internazionale? Qui l’ordine potrebbe vigilare, punire chi pubblica notizie false, impedire di lavorare a personaggi che agiscono in malafede. Gli esempi sono tanti, come lo sono le fake news in genere. La politica può fare qualcosa, ma non censurare, non impedire di parlare della politica stessa ad esempio. Il problema non è di facile soluzione. Chi dirige il giornale è davvero libero di far pubblicare la verità? Vedi lo stesso Indro Montanelli che ruppe con il suo editore Berlusconi. Il direttore è responsabile di quello che scrivono i suoi giornalisti, ma quando paga per un errore? Quasi mai.
Quello che fuorvia l’Italia a percorrere la via del cambiamento ce lo dice Piero Angela: Il problema dell’Italia è un problema morale, che non si può risolvere in cinque minuti. Ogni giorno leggiamo di casi di corruzione. Non sono solo politici, palazzinari, delinquenti: sono anche avvocati, giudici, uomini della guardia di finanza, dipendenti pubblici che truffano lo stato per cui lavorano. Non ci sono punizioni per chi sbaglia. E non ci sono premi per chi merita. Un paese così non può funzionare. È un paese morto.
Sarebbe il caso di fare un po’ di outing e riconoscere con senso di vergogna il pessimo lavoro svolto fino ad ora e commissionato dal potere-politico economico a cui è stato consentito l’accesso alle fasi decisionali della scrittura nelle redazioni a loro genuflesse. Il nemico del giornalista asservito alla disinformazione è la consapevolezza del lettore, unico vero giudice nella comprensione di un lavoro ben fatto o meno.
Il senatore Vito Crimi, sottosegretario del Consiglio dei Ministri con delega all’editoria, si è guardato bene, giusto qualche giorno fa, dal mantenere una linea favorevole all’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti in quanto conscio di dover attendere il processo di autoriforma generale che gli stessi giornalisti stanno cercando di risolvere a partire dall’accesso alla professione ed altri fattori cruciali, non escludendo che ciò possa sortire in Ottobre una normativa più valida ed attuabile di concerto ad un coinvolgimento decisionale di tutte le parti politiche.
D’altronde nessun giornalista degno di questo nome ha mai dovuto temere, per buono o cattivo che fosse, alcun politico, men che meno la forza della penna ha mai ceduto, neanche alla più cieca ignoranza o alla più terribile delle oppressioni!