L’accezione moderna della parola “mito” (dal gr. mythòs) si discosta dal significato che aveva originariamente, ossia la narrazione di un evento connotata da sacralità e specialità, figlia di un tempo senza storia, dai contorni sfumati. Oggi, di questo significato ci è rimasto ben poco. I miti moderni sono infatti strettamente legati al tempo, al presente che viviamo.
Modi di fare, di pensare e di essere, sono assurti a modelli da seguire a tutti i costi, status symbols che connotano in positivo chi li fa propri. Inseguire il mito della bellezza, rispondente a canoni prestabiliti dalla società moderna, oppure possedere determinati oggetti di consumo molto costosi, quali frutto della più evoluta tecnologia come i cellulari smartphone e simili, ne sono esempi eloquenti.
Il mito della “mela” icona della tecnologia ci indirizza e ci plasma. Sappiamo a cosa aspirare (il “mitico” oggetto elettronico) ma forse abbiamo dimenticato il perché, il fine ultimo della nostra smania. Ci basta fare un piccolo movimento delle dita e, in virtù del touchscreen, scopriamo mondi, dal divano di casa, in tempo reale. Google cerca per noi.
Eppure, voltandoci a guardare indietro, quale “motore di ricerca” migliore dell’uomo è mai esistito nel percorso della conoscenza? Il sommo Alighieri esemplificò benissimo, con le sue immortali terzine, tale concetto: “Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza1”.
E’ l’ansia di ricerca che non si appaga, destinata ad anelito senza fine che, non conoscendo età, ha da sempre tenuto in vita la fiammella della curiosità.
Un meccanismo, quest’ultimo, che accompagnandoci per mano lungo la strada della ricerca e del sapere, nel tempo ci ha ricondotto fino all’ e-Book, il libro elettronico, digitale. Che compatta informazioni, comprime files, assembla parole, riduce i volumi e non sa di carta, non invecchia, non ingiallisce, e non parla di noi suoi fruitori.
Abbiamo sicuramente guadagnato spazio e tempo, con l’e-Book, ma perso tanta magia.
E Hanta2 lo sa bene quanto vale un libro di carta. Hanta è un uomo che, relegato nella solitudine di un magazzino in un vecchio palazzo di Praga, uccide libri per professione. Li imballa in una pressa meccanica in quanto destinati al macero, ogni giorno della sua vita, in maniera ripetitiva e meccanica in quell’angolo di città, insieme alla sua solitudine e alle parole parlanti di quelle pagine dimenticate.
Egli si definisce “istruito, edotto contro la sua volontà”; riesce quindi a dare un senso a quella sterile reiterazione di movimenti meccanici finalizzati ad imballare pagine, considerando la preziosità del libro in quanto oggetto, oggetto sacro, dotato di un’anima. Hanta impara dai libri che va distruggendo, si arricchisce e scopre cose di sé che ancora non sapeva. Estrapola frammenti da quei testi, e li custodisce nel cuore. Così facendo riempie il vuoto della sua solitudine e si frappone tra la pressa meccanica e i quintali di carta stampata che gli passano tra le mani.
E’ un atto violento il suo mestiere, ne ha consapevolezza e prova a mitigare gli effetti di quella che lui stesso definisce “la strage degli innocenti”: fa una cernita dei libri che più di altri destano il suo interesse e sensibilità e se li porta a casa. Ne riempie ogni vano e, ancora, colma vuoti. Hanta sa che un libro racchiude tante vite, idee e genialità. La sua vivida immaginazione arriva addirittura a veder materializzati, accanto a sé, Kant ed Hegel, Aristotele e Platone, Camus e Sartre, compagni e fidi consiglieri nei suoi giornalieri silenzi, scanditi solo dallo scricchiolio di quel possente macchinario dalla forza distruttrice.
L’autore di questa storia, Bohumil Hrabal, ricorre ad una tecnica narrativa che rimanda al poema in prosa di baudelairiana memoria, una prosa che fa a meno dei versi e delle rime ma non per questo è priva di poeticità. Poeticità che emerge tra le righe: “perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alla radicine dei capillari”.3
Il lettore Hanta si fa autore, a sua volta, del libro della sua vita, attingendo a queste fonti di sapere divenute carta straccia e di cui si impossessa, fagocitandole, personalizzandole, somatizzandole. Si scopre erudito, quasi inconsapevolmente.
E quando il progresso tecnologico si presenta alla sua porta, ottimizzando i tempi del suo lavoro con macchine più efficienti e operai meno attenti alla “sostanza” delle pagine da accartocciare -ma più propensi al profitto-, il suo compito in quel magazzino perde la sua ragion d’essere. In preda all’alienazione per esser stato defraudato del suo ruolo e aver perduto così lo scopo della sua vita, egli si abbandona al vuoto. Lui che lottò sempre per non sentirsi come il Sisifo (destinato a compiere fatiche inutili e senza fine) del suo tanto amato “amico” Camus, e che dal contatto con le pagine spiegazzate ed ingiallite dei libri trasse la logica del suo vivere, instaurando un legame simbiotico con quelle “creature di carta” umanizzate, refrattarie all’azione distruttrice dell’uomo e del tempo, si sente ora veramente solo: “i cieli non sono umani, ma c’è qualcosa forse più di questi cieli, la compassione e l’amore di cui mi sono ormai dimenticato e che ho dimenticato”.4
E sulla scia delle parole di Italo Calvino “tutto è già cominciato prima, la prima riga della prima pagina di ogni racconto si riferisce a qualcosa che è già accaduto fuori dal libro”, così pure la vita di Hanta, esistendo fuori dal quel lugubre magazzino, acquisì un senso solo al suo interno, nel rapporto di interscambio con quegli oggetti di carta parlanti, e con essi finì. Allorquando le pagine da imballare divennero bianche, linde, vuote, egli mise fine alla sua esistenza ponendosi alla stregua dei suoi libri da imballare, raggomitolato, nella pressa. Hanta pensa a Seneca e come lui mette in atto il suicidio stoico, dinnanzi alla fine della virtù che lo rendeva un uomo migliore, cessato il suo scopo nella vita, la fa morire laddove ebbe origine.
La lettura è un atto individuale, intimo e ricco. Entrare in un libro non è prerogativa di qualunque lettore, bensì di ogni lettore che sappia andare oltre la “litteram”, riuscendo così a scorgere le storie che ogni parola cela e disvela, tra le pagine di carta, profumate, invecchiate, fragranti.
1D. Alighieri, La Divina Commedia, Inf. Canto XXVI vv. 118-120.
2B. Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi.
3B. Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, pag. 3
4B. Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, pag. 55