“In primis diremo che i sardi fanno all’amore sul serio. Questo forse moverà il riso ai cicisbei delle nostre città, abituati a passarsela, senza tanti fastidi, fra i loro amoretti. In Sardegna di regola non si ama una ragazza per trastullo; chi poi si è divertito coll’innamorata, deve sposarla”, naturalmente se non vuole rimetterci la pelle.
Così scriveva nel 1897 Poggi, nel suo “Usi natalizi, nuziali e funebri della Sardegna”, e per lungo tempo con l’amore sull’isola non si è scherzato, che il matrimonio era cosa seria, indissolubile, condizione scelta con convinzione, pazienza, e a seguito di un lungo e serrato corteggiamento.
Non parleremo del matrimonio alla “pisana” o alla “sardisca”, troppo distanti nel tempo, eppure non nel concetto. Basti sapere che nel primo caso alla donna non era consentito di stipulare contratti, né di impegnare o alienare i propri beni, nemmeno se in possesso del consenso del marito. La carta de logu parteggiava piuttosto per il matrimonio alla maniera sardisca, che regalava maggiore libertà alla donna, concedendole la proprietà del patrimonio proprio, che poteva essere mosso secondo piacimento.
Piuttosto ci riferiremo al matrimonio così come si è presentato negli ultimi duecento anni, soffermandoci prima di tutto sull’abitudine in auge fino ancora alla fine dell’ottocento nelle zone più interne dell’isola, di consumare il matrimonio, vivendo a pieno la vita di coppia, immediatamente dopo s’assicuronzu1, la promessa.
L’uso è attestato dal Poggi per Orune e per molti altri villaggi centrali della Sardegna, nei quali, una volta dada sa paraula2, si stimava superfluo ogni altro vincolo.
Alla vigilia del matrimonio, che poteva avvenire molti anni più tardi, il parroco avrebbe, dopo una penitenza più o meno sentita da parte degli sposini, dato l’assoluzione alla coppia che decideva di convolare a giuste nozze dinnanzi a Dio, in compagnia spesso di più d’un figlio; come a dire meglio tardi che mai!
L’uso è dimostrazione dell’importanza data sull’isola alla parola, dove la fede giurata era sacra e il matrimonio religioso altro non doveva sembrare se non una mera formalità priva di valore sostanziale. Si tratta probabilmente di residuo di usi precristiani, o come direbbe Alziator, pregregoriani. Ancora nel 1957, quando lo studioso cagliaritano pubblica “Folklore Sardo”, pare che questa usanza fosse sporadicamente in uso e lascia un pò perplessi osservare che le coppie più innovative, che prediligano oggi la convivenza prima del matrimonio civile o ecclesiastico, in fondo non abbiano scoperto niente di nuovo!
E’ sempre Alziator che ci regala uno spaccato di vita cagliaritana vissuta dai nonni di moltissimi altri sardi: su fastigiu, il corteggiamento, o meglio ancora l’amore fatto a distanza. I protagonisti erano un giovane ed una giovane. Lei la potremmo immaginare su uno dei molti balconi fioriti della Cagliari vecchia, tra i panni svolazzanti, colorati dal sole limpido isolano e freschi di bucato, lui nell’ombra di uno dei tanti profumati viottoli della città antica, nascosto, eppure visibile alla sua amata. L’uso venne rapidamente dimenticato dopo la seconda guerra mondiale, eppure ha caratterizzato a lungo la Cagliari di ieri durante quella fase d’innamoramento privata, quando il sentimento era ancora cosa personale.
Smetteva d’esserlo solo dopo l’avvenuto fidanzamento divenendo immediatamente atto sociale.
Eppure non ci si fidanzava tanto alla leggera in Sardegna, che il consenso doveva essere dato dalle famiglie che soppesavano bene il partito che la figlia si sarebbe pigliata.
Impossibile non fare accenno, seppure rapidamente a su paralimpiu o paralimpu, per intenderci il paraninfo conosciuto anche nel mondo greco, nel quale svolgeva il compito di condurre la sposa a casa del marito.
In grossa sostanza il parlimpiu era uno stretto parente del giovane che intendeva chiedere la mano di una ragazza, inviato presso la casa di lei per prendere informazioni. Il buon paralimpiu non entrava immediatamente in discorso, sondava piuttosto il terreno con i genitori della giovane, perché un rifiuto non era mai cosa auspicabile.
Figura che a tutta prima sembra particolarmente arcaica, sorprende scoprire che fosse ancora in auge fino agli anni ‘40 – ‘50 del secolo scorso nella soleggiata Villasimius, per quanto alcuni giovani iniziassero a farne a meno. Probabilmente cade totalmente in disuso dopo il secondo conflitto mondiale, che vide, come accennato, un sostanziale e rapidissimo cambio dei costumi, dettato piuttosto che dal volere dalla necessità.
Assolutamente da ricordare la parodia che Poggi attesta per Ovodda e che Alziator chiama la pricunta, uso tradizionale noto in Francia, in Inghilterra, nel mondo germanico e nei Paesi Baltici.
Il giovane che intendeva chiedere la mano della sua innamorata fingeva con la famiglia di lei d’essere alla ricerca di un anzone perdiu3. Tutte le figlie sfilavano lentamente difronte al giovane che solo dopo aver intravisto la donna di cui era innamorato proseguiva più o meno così “Custa, custa est s’anzonedda mea!4”.
Il fidanzamento conosceva durate variabili, ma di norma mai lunghissime e a s’intrada5 nella casa della futura sposa seguiva immediatamente dopo s’assicuronzu de su coju6, che di fatto rendeva i due, di fronte alla società, sposo e sposa, come precedentemente accennato.
Su portu de su beni7, attestato sia da Poggi che da Alziator, pare essere scomparso definitivamente nel secondo dopoguerra, privando il matrimonio sardo di uno dei suoi aspetti maggiormente pittoreschi. In grossa sostanza si concretizzava in un corteo di buoi che a traino trasportavano nella nuova dimora (la vigilia o qualche giorno prima del matrimonio), tutti gli averi della donna, insieme al corredo e masserizie varie. Ci si muoveva al suono delle launeddas letteralmente inondati da una pioggia di grano, che oggi, in segno di buon auspicio e abbondanza, viene usato “contro” gli sposi che escono dalla chiesa. Fra le altre meraviglie la futura sposa trasportava impossibile dimenticare il pane nuziale, un vero e proprio esempio sopraffino della capacità decorativa ed artistica delle donne di Sardegna.
Non si seguiva alcuno schema particolare durante il suo confezionamento, piuttosto i pani giornalieri, di semola e farina venivano reinterpretati in forme sorprendenti. I motivi che più spesso tornano, dato che a tutt’oggi è uso confezionarlo, sono quelle dell’acro, della serpentina o della corona – nido, che spesso veniva infilata nel collo della bottiglia, riprendendo un simbolismo sessuale nemmeno troppo nascosto. Anche il fiore e i rami tornano spesso come decorazione tipica e in alcuni casi il pane decorato e non lievitato veniva regalato, non commestibile, a mo di bomboniera. Spighe e cuori sono altri motivi che tornano spesso nell’ornamentazione del pane, e spesso il pane a forma di cuore veniva conservato dagli sposi e appeso al capo del letto nuziale.
Il pane veniva confezionato dalla futura sposa tre giorni prima dal grande evento, in compagnia delle amiche e parenti più strette. In quella circostanza avrebbe potuto dimostrare di possedere manus bellas8 e di conoscere tutti i numerosi segreti della panificazione, che in altre parole significava essere bona mer’e domu9.
Il rito ecclesiastico non aveva in sé alcuna particolarità, ma all’uscita dalla chiesa gli sposi venivano accolti con s’arrazza o s’arazia. I parenti più prossimi cospargevano, formando per tre volte il segno della croce, gli sposi di grano, sale e petali di rosa, simbolo dell’abbondanza, della sapienza e della salute. Questi ingredienti che insieme componevano la ricetta per un felice futuro erano contenuti tutti in un piatto che veniva, una volta vuotato, spaccato ai piedi della coppia.
Esattamente come accade oggi, il banchetto chiudeva il matrimonio, per quanto ieri si festeggiasse per molti giorni di seguito. Gli sposi erano soliti condividere il cibo in uno stesso piatto, e vedersi servire, nel bel mezzo del pranzo su prattu e brulla, il piatto scherzo con tanto di corna, erbe spinose, sassi e ossi.
Dolci tipici serviti a fine pasto erano il gattò de mendula10 nel Campidano e sa timballa11 nel Logudoro.
Il viaggio di nozze chiudeva il ciclo nuziale, esattamente come avviene per i matrimoni più moderni, con la differenza che i sardi di ieri si accontentavano di visitare qualche santuario campestre fuori mano.
Fonti
Alziator F., 1957. Il Folklore Sardo. Cagliari. Zonza Editori.
Poggi F., 1897. Usi natalizi, nuziali e funebri della Sardegna. Mortara. Arnaldo Forni editore.
Gomez P., 1995. I gioielli di Sardegna. Cagliari. Edizioni la Torre.
AA.VV., 2005. Pani: tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna. Nuoro. Ilisso.
Piras N., 2001. Gli sposalizi nelle tradizioni popolari sarde. Il messaggero Sardo.
Note
1. Assicurazione del matrimonio.
2. Data la parola.
3. Agnello perduto.
4. Questa è l’agnelletta mia!
5. L’ingresso.
6. L’assicurazione del matrimonio.
7. Il trasporto del corredo.
8. Belle mani.
9. Buona padrona di casa
10. Gateau di mandorle.
11. Una sorta di budino.
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