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“Hanno detto che Franziska è stanca di ballare
con un uomo che non ride e non la può baciare
tutta notte sulla quercia l’hai seguita in mezzo ai rami
dietro il palco sull’orchestra i tuoi occhi come due cani.”

Quanto possono essere lunghi 150 anni? Te lo sei mai chiesto? Qualche anno fa, un relatore che dominava come un mattatore incallito un piccolo palchetto di un paesello di campagna, parlando di archeologia mi ha fatto riflettere. Si parlava di quanto potessero essere lunghi duemila anni. “Poco” diceva lui, “a patto che la memoria venga condivisa”, per intenderci a patto che le madri raccontino alle figlie in un susseguirsi di parole che accorciano gli spazi e i tempi. Ne consegue che 150 anni siano un’inezia, uno spazio di tempo occupato da due, forse tre generazioni: un nonno, un figlio e un nipote.

La storia che ti racconto oggi è vecchia di 155 anni, anno più, anno meno e la conosco io, insieme a molti altri perché è una storia che è diventata memoria condivisa, raccontata dai nonni ai figli, e dai figli ai nipoti con un briciolo di fierezza, con un soffio di timore: è così che 155 anni diventano pochi, un battito di ciglia, un soffio di cuore.

D’altronde questa è una storia che ti entra dentro senza bussare; lei entra e lo fa passando direttamente dagli occhi, dal naso, dalle labbra, ti si insinua sotto le unghie e poco conta che si tenti di grattarla via, di dimenticarla. Le ti è già dentro, è entrata in circolo, ti si è incastrata fra il cuore e i polmoni e tu non puoi più dimenticarla. Questo è quello che è successo a me, questo è quello che succede a tutti quelli che l’ascoltano.

D’altronde gli elementi vincenti questa storia, che è diventata memoria condivisa ce li ha tutti. C’è l’amore, c’è la passione, c’è il dolore, c’è la vendetta e poi c’è pure la Sardegna, il palcoscenico ideale per qualsiasi storia che si voglia condividere.

Il protagonista si chiamava Bastiano Tansu, un gallurese nato e cresciuto ad Aggius, sotto l’occhio attento di quelle tre piccole colline che sono dette montagne. Non è dettaglio di poco conto questo, che Aggius è le sue montagne, e le sue montagne sono Aggius. E’ leggenda quella che vuole che siano dimora del Demonio e che questo si palesi con più vigore quando il vento soffia forte, fortissimo, quasi che se la voglia portare via la piccola Aggius, di pietra e acqua. Nella leggenda di vero c’è che queste tre colline che sono dette montagne siano un vero e proprio dedalo di caverne e anfratti, difficili da scalare, difficili da scoprire, tant’è che più di un bandito latitante scelse di fare dei tre monti la propria dimora. Tanto imprendibili quanto infernali: non è un caso che si decise di cristianizzarle queste piccole colline, che da lontano sembrano bonarie e lisce. Una di loro ancora oggi porta sulla propria cima una piccola croce che sfida i forti venti aggesi perché no, il vento ad Aggius c’è ancora, ma il demonio chi lo sa.

Bastiano il protagonista di questa storia era particolare per almeno due motivi: sapeva scalare il Monte Crocetta (quello con la croce a mo’ di frangetta) tornando al paese indenne, ed era sordo e pure muto. Due motivi più che validi per temerlo e schernirlo, tant’è che si prese a raccontare in paese, poco prima della metà dell’ottocento, che quel Bastiano era il figlio del Demonio, e che il padre lo aveva reso muto per far in modo che non rivelasse mai, a nessuno, la sua identità.

Non ci volle molto perché Bastiano diventasse da bonario e liscio, come i monti di Aggius, terribile prima, e Muto poi, il Muto di Gallura. La sua storia, raccontata con una dovizia di particolari eclatanti da Enrico Costa, reporter ottocentesco, io me la sono bevuta in una sola notte, assettata di fatti, curiosa sulla sorte di quest’uomo distante da me 155 anni eppure così dannatamente vicino.

Era sordo, era muto, era gallurese, ma, racconta Enrico Costa, era pure un eccellente artigiano: intagliava le zucche, intagliava i manici di coltello e i calci di fucile, lavorava le pelli, impagliava le sedie e sapeva per giunta ricamare: io un uomo così me lo sposerei se non fossi già sposata. Si diceva che dove guardava il suo occhio poteva arrivare il suo fucile e chiunque nella Gallura dei primi anni 50 dell’ottocento lo temeva. Un bandito, bello dicono le cronache del periodo, bello e dallo sguardo intelligente tant’è che il giudice di Aggius che trattò la pace fra i Vasa e i Mamia lo definisce un uomo affascinante, “un bell’uomo: i suoi occhi esprimevano un’eletta intelligenza ed io, che prima non lo conosceva, devo confessare che mi sentii attratto verso di lui da un irresistibile sentimento di simpatia, quantunque lo sapessi macchiato di sangue umano e non nego che mi spiacque la sua sordaggine e il suo mutismo, perché non mi permettevano di appiccar discorso con lui”.

Io a questo punto me ne ero già innamorata perché come ogni  bandito sardo che si rispetti, Bastiano diventa bandito quasi incidentalmente, quasi senza volerlo, quasi senza saperlo. Come ogni bandito sardo Bastiano è avvolto da un misto di tristezza e romanticismo, povertà umane, paure e dolori e domandarselo è inevitabile: al suo posto io pure sarei diventato il Terribile, il Muto di Gallura?

Non si stenta a credere che quella che Costa dice Gavina e la cronaca dice Francesca si sia infatuata di lui. Per pietà dice il puntuale Enrico, per puro spirito femminile dico io. Bastiano acquista nella storia una dimensione squisitamente umana grazie a Francesca – Gavina, che lui ama, che lui desidera, che lui fantastica di poter avere. Dopo promesse di matrimonio non rispettate, dopo una faida lunga sette anni che causa la morte di più di settanta galluresi, dopo assassini di bambini e di anziane, si scivola inevitabilmente dentro il romanzo, si raccolgono le more insieme a Francesca, si intagliano le zucche insieme a Bastiano, e quando la ragazza regala al bandito la sua medaglietta, tu pure gliela stai consegnando, con il cuore in mano, e con la speranza che no, i carabinieri non lo catturino mai. E quando Bastiano regala a Francesca quei bellissimi orecchini di corallo tu pure li indossi, perché sono belli e il corallo dona a tutte le donne.

Gli ultimi atti di questa storia che è diventata memoria condivisa si consumano in un attimo e ti resta poi la voglia di saperne di più di Bastiano, di Francesca e di tutta quella Gallura che è lì, a tre ore da Cagliari, ma tanto diversa dal Campidano.

Questa storia di memoria condivisa mi si è incastrata fra il cuore e i polmoni,  mi si è insinuata sotto le unghie e poco conta che abbia tentato di grattarla via, di dimenticarla. Le mi era già dentro, è entrata in circolo, e a me non è restato che cercare Bastiano e la sua Gallura. Ho guardato quegli stessi panorami che lui 155 anni fa deve aver ammirato, ho bevuto quello stesso vermentino da lui consumato a piccoli sorsi, ho respirato quella stessa aria che di notte si fa frizzante, mangiato quella zuppa gallurese che lui pure deve aver mangiato e mi son chiesta se per davvero, sul monte crocetta esiste quello che Enrico Costa ha detto “Tamburo del diavolo”.  “Sì”, mi è stato risposto, “ma raggiungerlo è piuttosto complicato” e io ho sorriso, che al Muto di Gallura qualche segreto ho voluto lasciarglielo.

Il Muto di Gallura è, a mia opinione, uno degli esempi più lampanti del potere delle memorie che si condividono, del potere delle parole che si raccontano, del potere delle storie che non si fanno dimenticare.

1 thought on “Il muto di Gallura: quando la memoria si condivide

  1. Forse “la tigre assetata di sangue” (definizione di un suo vicino di stazzo e contemporaneo del Muto) perse un po del suo alone romantico, quando,sparandogli a bruciapelo, uccise un suo conterraneo, mentre quest’ultimo era intento a controllare un alveare. Motivo: il Muto sospettava che l’assassinato qualche tempo prima gli avesse ucciso un cane di proprietà sua e del fratello.

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