Dedicarsi all’agronomia, alla gestione della vigna e, in particolare, all’arte di vinificare non è da tutti, ma “per chiunque sappia unire la diligenza alla scienza”.
Un’asserzione decisamente attuale, per quanto coniata “soltanto” nel I secolo d.C., che riesce tutt’oggi, e con efficacia, a descrivere una delle più importanti caratteristiche dell’enologo moderno; un’affermazione di Lucio Giunio Moderato Columella tratta dal “De re rustica”.
Scritto intorno al 65 d.C. è ancora considerato il trattato di scienze agrario più valido ed esaustivo dell’antichità, tanto da essere esemplare riferimento da almeno duemila anni; in alcune pagine del “De re rustica” (l’opera si compone di 12 libri i cui argomenti spaziano dall’aratura alla coltura dell’ulivo, dall’allevamento del bestiame all’apicultura, etc.) Columella spiega come praticare l’agricoltura in maniera scientifica ed ergonomica, esaminando i diversi adempimenti del l’uomo, dal più umile della filiera al proprietario, valutando la componente economica dal punto di vista delle leggi naturali e delle rese, i diversi tipi di “cultivar”, anticipando il concetto di biodiversità, i vari tipi di terreno, loro tessitura e vocazionalità.
Una volta giunto in Italia l’autore colse subito il potenziale dell’ampia varietà ampelografica e, restandone incantato, ne fece oggetto di profonda indagine. Uno studio al quale non lasciò nulla di scontato i cui risultati furono ottenuti con fatica, osservazione e un vivo amore per i vigneti e la natura in genere.
Non a caso è a lui che si deve una prima distinzione dei frutti della vigna in uve da tavola e uve da vino e, di queste ultime, in uve “aminee”, “apianee” ed “eugeniae”; un vero e proprio inizio nel classificare le viti.
Columella svolge la sua attività con meticolosa etica, puntando anche il dito contro il degrado ambientale e l’assurda pretesa dell’uomo di piegare la natura e violarne i limiti per il solo profitto; col “De re rustica” e il suo esempio, tramanda ai posteri i valori della civiltà contadina, i prodotti provenienti dalle campagne e le abitudini alimentari del tempo definendoli “bene culturale” da preservare.
Ci invita idealmente a difendere il giardino eletto dalla vite, quel vigneto più vasto e opulento di qualsiasi altro che è la nostra Italia e, possibilmente, a proteggerlo e tramandarlo a nostra volta, poiché inequivocabilmente è memoria storica dei luoghi, patrimonio inestimabile di cultura e tradizione; ci invita a farlo con sana e responsabile coscienza ambientale.
Coscienza con la quale il dott. Massimo Di Renzo svolge la sua attività dì enologo. Con il bagaglio culturale e professionale acquisito in precedenza, durante gli anni trascorsi alla scuola enologica avellinese, si laurea poi in scienze e tecnologie alimentari presso l’università degli studi del Molise coronando il suo sogno di diventare professionista dell’enologia, e degno ambasciatore della sua terra, l’irpinia; sospinto da questa ambizione, dalla chiarezza di idee, da un’incrollabile volontà e dalla passione che continua a profondere in tutto ciò che fa. Ha potuto contare sempre sull’ammirazione e il sostegno morale della famiglia, da sempre affascinata da questo suo amore incondizionato e spontaneo per il vino sin da bambino.
Siamo affascinati anche noi: è raro trovarsi di fronte ad una persona del suo spessore che sappia raccontarsi con modestia ed umiltà. Eppure lavora per Mastroberardino, l’azienda di Atripalda che da oltre 130 anni produce vino ed esporta commercialmente e culturalmente l’Irpinia e l’Italia nel mondo. Questi 130 anni, la collaborazione con Denìs Dubourdieu presso gli stabilimenti di Atripalda, riesce a convogliarli nel suo operato quotidiano, assieme agli insegnamenti di Angelo Pizzi, al rigore di Carlo Corino il suo bagaglio di competenza e umanità davvero unico, creano un risultato eccellente.
Rammenta quanto diceva il suo professore di botanica: “l’unica regola fissa in natura è che non esistono regole fisse”. E ne fa la sua filosofia di vita, il suo approccio da naturalista in vigna e di responsabile in cantina interrogandosi sulle variazioni di stagione in stagione, anno dopo anno; rammenta le parole del dott. Antonio Mastroberardino quando disse “ragazzo, nulla si crea”, alludendo al successo aziendale che non si crea dall’oggi al domani e al fatto che tutto esiste già natura e spetta all’uomo saperlo cogliere, lasciando inalterate le caratteristiche.
Non è mai autoritario, ma autorevole e cortese nei modi, nel gestire le relazioni coi collaboratori, chiedendo loro educazione, dedizione e puntualità e applicando fiduciosamente le regole del lavoro di squadra; nutre profondo rispetto per l’ambiente e ammirazione per tutte le espressioni di viticultura “eroica”; sa quanto le difficoltà acuiscano impegno, entusiasmo e soddisfazione ed è per questo che non teme le sfide. Ma non è tutto. gli si illumina il volto a parlare del suo lavoro e non fatica ad ammettere di sentirsi un eletto poichè svolge esattamente il lavoro che gli piace, quello per cui è nato.
Ascolta la musica leggera, i cantautori in particolare; quando può guarda con piacere la “fiction” italiana e non a caso ama leggere di quella letteratura che tratta del suo amore, la sua attività e il suo hobby: il vino. E altrettanto ama conoscere diverse realtà enoiche, con spirito comparativo, viaggiando verso le capitali del vino…Jerez de la Frontera e Stellenbosch, per citarne alcune.
Quando gli chiediamo di darci una definizione odierna dell’enologo, ci svela il suo lato romantico ed idealista dicendo: “l’enologo deve essere ancora un artigiano del vino di concetto e ingegnarsi a trovare continuamente soluzioni che adeguino le tecniche tradizionali ai numeri e alle procedure industriali”. Parole illuminate di uno tra le personalità più genuine del rinascimento del territorio e del vino italiano, parole di un uomo rispettoso della tradizione e che sa “unire la diligenza alla scienza”.
Da buon padre di famiglia ci conduce attraverso il suo pensiero, la sua opera, come fa con le figliolette Clara ed Emanuela che già appassionate al vino, attratte dai suoi colori e profumi, passeggiano lungo i filari nelle vigne. E noi di mediterranea senza indugio ringraziamo e li seguiamo:
Quali sono le doti professionali e umane che dovrebbero qualificare un enologo? Ed un enologo italiano? In che misura andrebbe bilanciato l’equilibrio fra tradizione ed innovazione? Sussistono ancora differenze tra i principali paesi produttori di vino, una linea di demarcazione netta nel “modus operandi” in vigna e in cantina?
La professione dell’enologo richiede molto sacrificio e una grande preparazione tecnica. Si può fare solo se spinti da una forte passione. Le doti da possedere sono, quindi: passione, interesse per la natura, amore per la terra e molta pazienza. L’enologo italiano deve, inoltre, conoscere bene il territorio, dalla geologia alle peculiarità sociali, e cercare di esprimere il tutto nei vini.
La tradizione deve essere una linea guida nella progettazione di un vino, ma deve anche essere da stimolo per la ricerca del miglioramento qualitativo attraverso l’innovazione. Quindi l’equilibrio va bilanciato considerando sempre una buona dose di innovazione.
Nei paesi del Nuovo Mondo enologico non c’è alcuna considerazione della tradizione; le scelte sia in vigna che in cantina vengono fatte solo per “comodità tecniche”. Nel Vecchio Mondo si portano ancora avanti con caparbietà scelte dettate dalla tradizione, facendosi carico di tutte le difficoltà connesse.
Le linee guida dettate da una lunghissima tradizione aziendale al passaggio del testimone: quanto attenervisi e quando discostarsene? Continuità o impronta personale al vino? Quando si intuisce che lo spirito delle uve vinificate è stato lasciato intatto e la mano che le ha interpretate ha saputo tradurre il territorio in vino sacrificando la propria visibilità?
Le linee guida dettate da una lunga esperienza rappresentano sicuramente una base solida e importante su cui lavorare, ma i passaggi di testimone portano sempre a cambiamenti innovativi. L’importante è tenere sempre ben presente la filosofia di produzione aziendale. Dare un’impronta personale al vino è un grave errore, perché il vino rappresenta un insieme di cose: storia, tradizione, territorio, vitigno, ecc. Quando nel vino si percepiscono i caratteri distintivi della varietà di uva, le peculiarità del terreno da cui prende origine e quelle del clima dell’annata.
Cosa intende per “enologia coerente”? Non è forse per mancanza di coerente onestà da parte di tutti gli addetti al settore che abbiamo imparato così poco dalla dura lezione inflittaci dal metanolo? A distanza di oltre un ventennio insomma “brunellopoli”, “velenitaly” e l’abusata pratica del magazzinaggio continuano ad offendere la reputazione dell’Italia del vino e l’operato di chi continua a lavorare con perseverante passione e lealtà! Come dotare gli organismi di controllo con armi più efficaci, come difendere il consumatore, così esposto a gravi rischi per la salute e dalle contraffazioni persino? E ancora: in quali circostanze bisogna dire no al vino?
È l’enologia basata sempre sugli stessi principi, pur vivendo evoluzioni, innovazioni, momenti storici diversi. Ci sono aziende che proprio nei momenti storici del metanolo, Velenitaly, ecc. hanno tirato fuori i loro migliori cru, a testimonianza che questo settore non è per i guadagni facili, ma per i progetti a lungo termine.
Oggi gli Organismi di Controllo sono ben dotati di strumenti opportuni ma bisogna ufficializzare la risonanza magnetica nucleare e comprendere la necessità di creare banche dati del DNA del vino. Il consumatore non deve farsi attrarre da prezzi troppo bassi; deve imparare a capire che dietro una bottiglia di vino ci sono importanti investimenti, grandi sacrifici, storie di generazioni di famiglie, know-how tecnici e commerciali. Bisogna rinunciare a una condotta diversa dal bere responsabile e quando c’è dell’incredibile nel bicchiere!
Spandimento sui terreni agricoli e immissione nelle reti fognarie dei reflui vinicoli senza abbattimento di quei valori fuorilegge, uso di lieviti non indigeni ed espianti di ettari di vigneto estirpati al paesaggio di cui ormai facevano parte, eppure ci piace tanto parlare di “biologico” e “biodinamico”, quando occorrerebbe un cambiamento di mentalità e acquisire una sincera coscienza ambientale. Ci aiuti, ci aiuti per favore a fare chiarezza: quando una cantina può usare questi termini per descrivere il proprio vino? Con quali accorgimenti produttivi ed ecologici?
Parlare di Biologico e Biodinamico ha molto più senso se riguarda un vasto comprensorio piuttosto che qualche goccia in un oceano. Ma più che di questi concetti, sarebbe necessario che tutti acquisissero una coscienza ambientale. Oggi siamo nella condizione di poter ridurre notevolmente l’impatto ambientale anche nell’agricoltura convenzionale. Pertanto ritengo più utile un impegno da parte delle aziende ad acquisire una forma mentis sul rispetto dell’ambiente in termini di benefici ambientali collettivi piuttosto che una singola vigna condotta con estremo rigore secondo regole che prevedono limitazioni all’utilizzo di principi attivi per poi poter etichettare il proprio vino come Biologico o Biodinamico. Del resto non si può proteggere l’ambiente e la biodiversità se non si “sdogana” il sapere dalle aule universitarie e si comincia a praticarlo sul campo, promuovendo e rendendo necessario il contatto con la natura.
Sempre più persone si affidano, nella giungla dei marchi, ad altisonanti nomi e a blasonate cantine. Quanto affidarsi ai “brands”, ai guru e alle guide di settore e quando sarebbe invece il caso di smettere di “bere etichette” e cominciare a bere vino? Si parla troppo spesso di qualità, forse svuotando la parola del suo stesso significato, ma come la si attribuisce al vino che vorremmo, come e dove riconoscerla?
I consumatori scelgono i marchi consolidati perché in questo modo si sentono garantiti sulla qualità. Parlare di qualità e di come riconoscerla, invece, richiederebbe un consumatore ben preparato sui vini, cosa difficile da realizzare con gli attuali corsi di formazione a meno che non li si aiuti a cercare la corresponsione tra il vino e l’uva con la quale si è fatto e li si insegni ad individuare i riconoscimenti varietali in base al territorio di origine.
Il vino di oggi e il vino di ieri. Esiste un comune denominatore oppure è cambiato qualcosa negli anni? Come, e a cosa risponde il consumatore e quanto bisogna scendere a patti con le leggi di mercato e obbedire al gusto sempre più internazionale del vino?
La qualità è progressivamente migliorata nel tempo. Oggi i vini sono molto più espressivi da un punto di vista varietale e del territorio. Hanno sensazioni più ampie, intense e complesse, che soddisfano un maggior numero di consumatori anche di diverso genere.
Lavoro in un’azienda storica che ha sempre prodotto vini di territorio da vitigni autoctoni in una fascia di prezzo medio-alta, in pratica l’antitesi del gusto internazionale. Esporta con successo in tutto il mondo da oltre 130 anni. Penso che l’importante sia proporre vini interessanti, non banali, piuttosto unici e legati a concetti solidi (storia, tradizione, territorio, ecc.). Sono questi i valori che legano il vino del passato al vino del presente, che tracciano la via per il futuro.
Quanto dovrebbe costare a noi italiani la qualità, la genuinità e la sicurezza del vino da mettere a tavola ogni giorno? In un paese soprannominato enotria è incredibile che persino i vini esteri destinati alla Gdo, contengano più uva e costino meno, per quanto il prezzo sia inficiato da lunghi trasporti, dei vini nostrani a “km 0” destinati alla stessa fascia di consumo. Forse bisognerebbe rivedere i termini della filiera vitivinicola, se non addirittura il sistema delle denominazioni a partire dalla base, non trova? Ma quanto nuoce davvero la globalizzazione del vino e a chi? Il futuro dell’enologia italiana, come preservarlo? Chi dovrebbe iniziare a farsene davvero carico?
Sono elementi che hanno sicuramente un’incidenza notevole sul costo di un vino. Rispetto ad altri paesi soffriamo dei fenomeni della frammentazione e polverizzazione dei terreni agricoli, quindi le aziende hanno mediamente dimensioni ridotte e costi di gestione elevati. La filiera vitivinicola e il sistema delle denominazioni fanno parte delle nostre caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi.
La globalizzazione nuoce un po’ a tutta la filiera, soprattutto a chi compra vino tenendo conto della biodiversità e della cultura che c’è dietro ad ogni territorio. Solo continuando a offrire prodotti con caparbietà, passione, conoscenza e rispetto del territorio che si distinguono per uno stile “made in Italy” possiamo preservare il nostro patrimonio vitivinicolo.
Come al solito è inutile aspettare aiuti. Devono essere i produttori, ancora una volta, a rimboccarsi le maniche e cominciare innanzi tutto a organizzarsi per fare sistema.
Tradizione e territorio. Ecco altre parole inflazionate. Si parla di radici, ma le radici della viticultura campana sono ancora intatte o stiamo sottovalutando, sacrificando gran parte del patrimonio ampelografico di questa regione, in nome di vitigni dalla fama ormai consolidata e più “maneggevoli” in termini produttivo-commerciali? C’è una regione d’Italia o del mondo, che prenderebbe come esempio per ammonire questa dilagante ed ipocrita filosofia di promuovere la mutilazione varietale, piuttosto che esprimerne il potenziale? Dove si riesce ancora a scorgere, a suo avviso, un mirabile esempio di preservazione o rivalutazione del “terroir”?
La Campania è una delle pochissime regioni d’Italia che non ha sviluppato vitigni alloctoni “facili” in maniera significativa. Lavora da sempre su vitigni autoctoni nonostante le difficoltà tecniche e commerciali che ciò ha comportato.
Nel corso del tempo alcuni vitigni sono stati abbandonati perché ritenuti poco interessanti, altri, invece, sono in corso di rivalutazione, grazie alle moderne tecniche viticole ed enologiche che consentono di esprimere meglio le caratteristiche varietali.
Proprio la Campania rappresenta uno dei migliori esempi di preservazione del patrimonio varietale. Se poi pensiamo alla viticoltura eroica di alcuni posti della regione, come la Costiera Amalfitana, la zona del Gragnano nella Penisola Sorrentina, l’isola d’Ischia, le pendenze delle colline dell’Irpinia e del Sannio, i terreni vulcanici, ci accorgiamo di essere di fronte ad un bell’esempio di preservazione del territorio. L’espansione della viticoltura degli ultimi 15/20 anni ha portato anche ad una rivalutazione di certi terroir.
Cosa le suggeriscono i vini troppo “perfetti” e i vini di cui, vendemmia dopo vendemmia, è sempre più arduo carpire le differenze che il clima imprime organoletticamente? E’ la natura che si sta omologando, o è l’uomo che la sta piegando con alchemici virtuosismi e forzature?
Mi fanno pensare a errori di interpretazione del territorio e, quindi, vini con poco significato, non legati a concetti importanti. Esistono differenze climatiche anche minime tra un’annata e l’altra, e chi le sa carpire le mette in evidenza nei vini.
La natura nel corso del tempo sta certamente cambiando, ma è soprattutto il fattore umano ad incidere su questo concetto.
Il ruolo dei sommelier e delle associazioni di categoria: dove bisogna cambiare e cosa è sinceramente necessario trasmettere a coloro che si vogliono avvicinare al mondo del vino e conoscerlo meglio? E cosa farebbe lei per farci innamorare del vino?
È necessario uscire dagli schemi rigidi dei loro corsi di formazione. Bisogna far capire il legame che c’è con la viticoltura, la bellezza delle diverse sfumature, varietà ed eterogeneità dei vini, non comunicare il vino come se fosse un fenomeno elitario. Vi farei partecipare a tutte le fasi della nascita di un vino, dalla potatura alla gestione della chioma, alla valutazione della maturazione dell’uva, alla vinificazione e all’affinamento.
A cosa si è ispirato ieri, a cosa si ispira oggi e a cosa si ispirerà domani? Gli uomini, le donne, i valori e i paesaggi…..Ci narri di Massimo Di Renzo, dell’uomo e dell’enologo.
Sempre alla stessa cosa, un’ardua impresa: fare dai nostri vitigni vini eleganti, pieni, complessi, caratterizzati da sensazioni intense. Mi ritengo fortunato: prima i miei genitori e poi mia moglie hanno sempre capito e assecondando questa mia grande passione per le vigne e il vino. Ho anche avuto la fortuna di interfacciarmi con consulenti di alto profilo professionale, che mi hanno trasferito insegnamenti molto importanti.
Un auspicio per lei stesso, per gli enologi che verranno e per il vino italiano, un augurio e un consiglio per tutti.
L’auspicio è di diffondere sempre più il vino stile “made in Italy”, affinché possa diventare per tutto il mondo simbolo di grande cultura ed elevata qualità. Ai giovani enologi che si addentrano nel settore, suggerisco di tenere ben presente che si troveranno al cospetto di imprese difficili con risultati soddisfacenti solo a lungo termine. È un settore molto complesso che va approfondito sotto diversi aspetti; bisogna avere sempre una visione a 360° e non trascurare lo studio e l’aggiornamento professionale.
Con l’augurio che il vino sia sempre motivo di arricchimento culturale e gioia conviviale.