Articolo di Ouejdane Mejri
Accostare le parole “vino” con “cultura araba e musulmana” potrebbe sembrare ad alcuni bizzarro, o incongruo, ad altri controverso e anche irriverente. Ciò nonostante il vino non ha mai cessato di fluire nei paesi arabi, in modo particolare in quelli del Nord Africa laddove la cultura dell’uva da vino è stata proficua già dall’antichità. Ifriqiya1 ereditò le tradizioni vinicole degli antichi fenici che, cinque secoli prima dell’era cristiana, esportavano già ottimi vini della collina di Byrsa la Cartaginese. Magnifici mosaici presenti nei siti archeologici e nei musei della Tunisia e della Libia ritraggono con maestria ogni singolo dettaglio delle fasi di impianto, potatura e diserbo dei vigneti e ancora la vendemmia e la schiacciatura dell’uva.
Se poi ci spostiamo all’era medievale scopriamo quanti sapienti e filosofi arabi hanno enunciato sia i benefici sia i danni scaturiti dal vino. Saggi, poeti e uomini istruiti hanno enunciato massime, versi e sentenze sul vino. La letteratura araba riporta condotte di re e sovrani e i loro pareri autorevoli contro il consumo del vino oppure sulla sua curiosa liceità. È avvincente denotare la controversia che circonda il vino, l’ebbrezza e l’interdizione sacra che si cristallizza tutto attorno a questo tema. L’ambivalenza di questa bevanda è che riunisce quanto divide, alle sue virtù terapeutiche i suoi detrattori oppongono gli eccessi ai quali conduce gli uomini. Da una parte ricercato e onorato, altre volte al contrario, colpito di anatema, il vino accompagna e simbolizza le passioni degli uomini. Difatti, nessun’altra bevanda come il vino ha conquistato tanto spazio nelle concezioni dottrinali, teologiche ed esoteriche dell’islam.
La parola araba khamr (vino) condivide la propria radice “kh-m-r” con il verbo khamara che sta per coprire, avvolgere e tacere. Il vino come un silenzio misterioso nasconde ciò che solitamente è percepibile, come un dolore inebriante [khamiratou adda’i] che la tradizione orale araba descrive come ciò che avvolge interamente, turba la mente e rapisce l’intelligenza. L’etimologia è simile a quella del velo delle donne, in arabo khimar, che si dice anche della terra che inghiottisce qualcuno e lo nasconde. Il vino nel suo etimo arabo non solo vela e copre la realtà, ma potrebbe cambiarla e alterarla.
La lingua araba non risparmia in parole per indicare il vino, sfumando la sua qualità ma anche i suoi effetti sull’uomo che potrebbe passare dallo stato di mokhammar, stordito dai vapori etilici, a sokran (ubriaco) passando da nachwan (allegro). Per acquisire o consumare alcolici bisogna recarsi in uno dei luoghi indicato da, per citarne solo alcuni, hani, hanout, sadi’aton o makhour, sapendo che se si visita una daskara ci si sta recando nella casa di un non musulmano laddove si vende vino e si passa il tempo con giochi vietati ai musulmani.
La tradizione popolare cautela asserendo che “l’ebbrezza della gioventù è più forte dell’ebbrezza del vino” ma distingua anche tra chi non ha né del buono né del cattivo dicendo di lui che “non ha né di vino né di aceto” [ma laho bikhallin wa la khamrin]. Tuttavia se il vino è figlio della vite e dell’uva [bintol 3inabi, bintou karami] non è meno di essere madre delle turpitudini [Om al khibath]. Sposando rituali particolari nella dottrina Sufi, il vino rimane in ogni modo una bevanda chiaramente proibita dal Corano e dalla Sunna2. Quando nel cristianesimo la preghiera accoglie cerimoniali in cui si beve vino, un musulmano non deve assolutamente approcciare la preghiera se lo ha toccato3.
Ouejdane Mejri
Presidente Associazione PONTES dei tunisini in Italia
1 Ifriqiya è il nome che gli Arabi invasori dettero alla Provincia Africa, istituita da Roma e mantenuta dai Bizantini. Coincide con tutta l’attuale Tunisia, più le propaggini più occidentali dell’Algeria e dell’orientale Tripolitania (attuale Libia).
2 La tradizione profetica contenuta nelle pratiche del profeta Mohammad.
3 Il Santo Corano, Surate IV, Versetto 43.