Continua il viaggio dentro casa, la quarantena dettata dal Covid-19 non è finita. Che cosa posso fare, mi chiedo, per dare respiro ai pensieri: fare tappa in libreria, nello studio.
E mentre immagino la mia vita qui come una traversata tra i flutti, ne osservo i fondali: scaffali di libri.
Scelgo “Artiste”, un saggio di Martina Corgnati e lo sfoglio. I miei occhi si soffermano su un’immagine: c’è un camion carico di fagotti di stoffa colorata e una donna, seduta sopra e messa di spalle, con una lunga treccia nera. L’autocarro percorre una strada sterrata, un sentiero tra la montagna e il mare. Chi è quella donna? Un’artista concettuale, Kim Sooja (1957), sudcoreana di nascita, newyorkese di adozione. Le sue opere d’arte di stoffa, i fagotti o bottari, con cui i migranti sono soliti avvolgere i loro pochi averi, transitano con lei, ripercorrono le vie e strade dei profughi, degli esiliati, e anche delle artiste che sono dovute andar via per essere riconosciute. Un pellegrinaggio simbolico in onore di tutti gli emigrati che hanno portato con sé sì la speranza di una vita migliore, ma anche la ferita del proprio sradicamento. Leggo ancora tra le pagine ed ecco alcuni frammenti dell’intervista a Sooja. “A Seul era troppo dura come donna e artista. Il mio lavoro è diventato visibile quando è approdato a New York”. Confeziona i bottari con stoffe tradizionali di svariate etnie.
In fuga. Lo siamo anche noi. Le ultime notizie lette sul giornale riportano il grido disperato dei migranti “La Libia è peggio del coronavirus”. Ricordo alcuni foto reportages: le immagini di donne, uomini e bambini nascosti sotto o dentro i camion, chiusi dentro una cassa, nei van valigie dei pullman, o dentro il bagagliaio delle macchine. Le foto delle cicatrici, segno delle torture e violenze subite, e poi dei barconi. Sono soli. Soli.
“Lasciamo questa guerra, questo terrore, mi dicevi…”, rileggo un brano tratto da “Le nuove Eroidi”, – una reinterpretazione di Le Eroidi di Ovidio, ad opera di otto importanti scrittrici – che è ancora qui sul mio comodino. La storia, che s’intitola Ero, racconta la vicenda di un uomo e una donna che per fuggire dal loro paese in guerra, decidono di tentare la traversata del Mediterraneo sui barconi. Ilaria Bernardini, la scrittrice, s’ispira al mito greco di Ero e Leandro e alle testimonianze dei migranti intervistati, di cui riporta le parole. “Ti avevano appena ammazzato il cugino. Se saremo insieme ce la faremo, dicevi. Ho paura, ti ho detto, e non voglio partire. Le mie radici sono qui, tutto quello che amo è qui. Tu anche sei qui. Sono io la tua terra, ripetevi”. Il vento spalanca la finestra e interrompe il flusso dei miei pensieri, poi la voce del cronista che riepiloga il totale dei deceduti e dei contagi. “Siamo tutti nella stessa barca” si dice, il Covid19 l’ha svelato in tutta la sua crudezza. Non posso fare a meno di notare le differenze però. Riapro il libro. “Nel mio gommone piangono tutti, non solo i bambini, non solo le donne, anche i vecchi, anche i maschi muscolosi. Piangono, vomitano. Ma quanto pregano, chi pregano? Sono in troppi a ripetere le parole della speranza su questo gommone, e siamo in pochi perché questo gommone non affondi”. E poi l’epilogo. “Avvicinati. Sono vicino. Più vicino. Stai morendo amore mio”. Accompagna il suo uomo con lo sguardo, finche’ non viene inghiottito per sempre dal mare.
Seduta sul letto, con il pc sulle gambe, pile di libri per terra e sparsi dappertutto, ne scelgo uno: “Le voci del Sogno” di Ivan Cotroneo. Lo apro, “Vertigine” è la prima parola che mi cade sott’occhio. Sì, provo proprio un senso di smarrimento quando penso alla condizione in cui ci troviamo. “Tranquilla. Calmo. Segui il mio filo e ti giuro che non ti perderai. Te lo giuro, fidati. Hai le vertigini, dici. Bene. Non puoi perdermi perché io sono l’uscita da questo labirinto. Non puoi uscire da questo intreccio prima di esserti perso. Non puoi cercare di affidarti alla logica. Sono quella musica che non ti lascia mai. Quando avrai scoperta la tua allora sarai salvo”. Sfoglio ancora le pagine, in ognuna trovo qualcosa di me. “Non chiederti chi sei e quale sia lo scopo del tuo viaggio. Per qualche momento devi fermarti, lasciare la terra e staccare la tua ombra. Io sono il qui e ora, il presente e la promessa dei giorni futuri. Li vedi laggiù in fondo? Ti aspettano. Spalanca le braccia”.
Oggi non è facile. Ho poche ore di sonno alle spalle. Oggi non va. Do un’occhiata ai libri riposti sugli scaffali. Un titolo, “Uscirne vivi” di Alice Munro. Sì, uscirne vivi, non come dei meri sopravvissuti. Torno in camera da letto, c’è un saggio che desidero rileggere “Il tempo e Lo Spazio. La percezione del mondo tra Ottocento e Novecento”, di Stephen Kern. Arrivo al terzo capitolo: “Il presente”. “Nella notte del 14 aprile 1912 la più grande struttura semovente mai costruita, Il Titanic, procedeva a velocità sconsideratamente alta fra i banchi di ghiaccio del nord Atlantico. Alle 23 .40 una guardia scorse improvvisamente un iceberg proprio di fronte: la nave virò bruscamente, e quando strisciò fu aperta come una scatola di latta, con una falla sotto la linea di galleggiamento lunga trecento piedi”. Il capitano capì che stavano rapidamente affondando e alle 24.15 ordinò al suo radiotelegrafista di trasmettere il segnale di soccorso. In pochi minuti le onde radio stavano mormorando i segnali. Di prima mattina il mondo intero era al corrente della notizia del disastro. Pausa. Un transatlantico che sta affondando, è proprio questa l’immagine che mi si staglia alla mente quando ascolto o leggo le notizie dei giornali.
Ritorno in studio. “C’è una vecchia”, scrive Clarissa Pinkola Estès, psicanalista yunghiana, nel suo saggio “Donne che corrono con i lupi”, “che vive in un luogo nascosto dell’anima, La Que Sabe, Colei che Sa, o La Loba, La Lupa”. Una vecchia che si occupa di raccogliere le ossa, simbolo della forza indistruttibile presente in ciascuna di noi, soprattutto di quelle che rischiano di andare perdute. Le cerca dappertutto tra le montagne, i letti prosciugati dei fiumi, le lande desolate, e quando rimette insieme lo scheletro, inizia a cantare finché le parti di quella creatura riprendono vita e la donna è finalmente libera. Forse in questo momento ci sembra di abitare uno spazio vuoto, non riusciamo a guardare quell’unico fiore che brilla. “Non fate sciocchezze”, esorta Estès, “Tornate indietro e fermatevi accanto a quell’unico fiore rosso, cercate di percorrere quell’unico faticoso chilometro. Arrampicatevi fino alla caverna. Strisciate attraverso la finestra di un sogno. Setacciate il deserto e guardate che cosa trovate”.
Ripongo il libro. Scendo in giardino: tra le fronde degli alberi il sibilo del vento.
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