Codice della vendetta barbaricina
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Su sambene no est abba (il sangue non è acqua)

La vendetta all’interno di quel “malessere” della società e dell’economia sarda indicato sotto il nome di banditismo è stato un tempo un “oggetto” buono da pensare antropologicamente parlando. Impossibile non fare riferimento all’inchiesta più nota, “Il codice della vendetta”, svolta da Pigliaru nel territorio barbaricino dei suoi tempi, volta a porre in luce le motivazioni profonde dei fenomeni di banditismo in Sardegna.

“Il Codice” rappresentava una frattura totale con l’autorità dello Stato, un insieme di regole di vita che uscivano fuori da quelle della logica dello Stato. Certo è importante comprendere che quel Codice della vendetta era proprio della terribile vita dei pastori e non dei banditi, era codice dei pastori che vivevano di solitudine e di insicurezza e come dice un allievo di Pigliaru, Salvatore Mannuzzu in – La terra vuota. Il “Codice della vendetta”, ieri e oggi- : “il pastore è solu che fera, solo come una bestia selvatica, dentro la natura “improvvida ed ermetica”, dentro “la disperata solitudine della natura”, su quella “terra vuota”; e la sua “cultura è troppo vicino alla natura per essere meno dura di quanto sia”; e ogni sistema sociale è vissuto da lui come sistema della natura”. Prevale in queste frasi la necessità di stato della vita dei pastori in un contesto storico , culturale in cui era di vitale importante essere abili e forti non per esistere ma per resistere alle difficoltà imposte da quella natura selvaggia. Il codice della vendetta era una “Costituzione d’abbattimento”, opposta a quella dello Stato, costituita da regole precise per affrontare un ambiente in cui quelle dello Stato non sarebbero mai potute arrivare. “Un codice di guerra” in cui la vendetta altro non è che un “farsi giustizia” per non morire, un codice che pose un limite all’arbitrio di ciascun balente, perché la vendetta di sangue genera vendetta di sangue in un cerchio che altrimenti non si chiude mai. Che cosa rimanga oggi del codice barbaricino è “oggetto” sul quale diversi studiosi indagano non abbandonando le ipotesi di Pigliaru che impongono un’analisi nuova della società sarda e barbaricina in cui prevale un nuovo risentimento sociale nei confronti delle mancanze di uno Stato che non è in grado di creare sicurezza ed eliminare quel malessere che la solitudine e la disperazione produce nei cittadini. Anche i “moderni banditi” vengono indicati con l’aggettivo “isconcados” (senza testa), in quanto facili ad impugnare un fucile senza discrezione pur di farsi posto in questa nuova società competitiva; una cosa è certa, il mondo descritto da Pigliaru è cambiato e forse non esiste più.

Per comprendere ciò che rimane ai nostri giorni dell’antico “Codice della vendetta”, abbiamo intervistato il Prof. Manlio Brigaglia, storico della Sardegna ed esperto del banditismo.

Prof. Brigaglia, lei che è un esperto del banditismo, ci può dire se vi è un rapporto tra la vendetta e il banditismo? Si diventa “bandito” a causa della vendetta obbligatoria?

Tra la vendetta e il banditismo c’è un rapporto che, soprattutto nel passato, fu diretto e obbligatorio. Oggi questo rapporto si è allentato, nel senso che la vendetta non è mai diventata quell’obbligo quasi morale che era prefigurato nel “Codice della vendetta barbaricina” di Pigliaru. Nel passato, anche recente, non erano pochi i casi in cui si diventava banditi perché perseguiti per aver commesso un omicidio per vendetta: oggi i casi sono molto meno numerosi. Direi che, anche in casi di vendetta, si tratta di vendette, come dire individuali, in cui l’obbligo di assolvere a una delle famose leggi non scritte della comunità (e la consapevolezza dell’esistenza di quest’obbligo) è praticamente assente.

Quale è il ruolo della donna nella vendetta sarda?

Oggi come oggi, credo non differisca dal ruolo della donna, in ordine alla vendetta, nella società contemporanea in genere. In passato si pensava invece che la donna fosse in qualche misura la custode dell’obbligo della vendetta (per esempio conservando un capo di vestiario insanguinato dell’ucciso), al punto che alcuni linguisti interpretano “l’attitu” (o attitidu) come un termine derivato da un verbo “attittare, attizzare” nel senso di “attizzare la vendetta”.

Cosa è cambiato nella società sarda, quali valori determinano il nostro modello di convivenza? Le faide sono, fortunatamente, quasi scomparse e ci si rivolge all’autorità statale per regolare i dissidi. Come vede il futuro della nostra comunità, dal punto di vista della legalità?

È cambiato (quasi) tutto, tanto che si è anche parlato di una “catastrofe antropologica” per dire di un radicale mutamento dei modi di vivere e di pensare come conseguenza dell’irruzione della civiltà capitalistica nella società tradizionale sarda (attraverso i media, la scuola, i consumi, il modo stesso di lavorare). Ma residuano, della cultura arcaica (chiamiamola così per comodità) diversi disvalori da cui la società interna, in particolare, non si è liberata. Il cammino verso la legalità è lungo e difficile.

Cosa ne pensa della “vendetta” in politica, tra partiti e movimenti?

Quello che Lei chiama “vendetta” fra partiti e movimenti è soltanto il modo della lotta politica, che divide (leninisticamente) tutti gli altri in amici o nemici, e li tratta conseguentemente. (Comunque, la parola “vendetta” in politica, salvo il caso di vendette personali e individualissime, mi pare con correttamente usata).

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