Le vie di comunicazione marine hanno costituito da sempre fattori di importanza vitale e strategica nello sviluppo sociale ed economico dei popoli del Mediterraneo a tal punto da poter affermare che la storia della civiltà coincida con l’evoluzione dei trasporti marittimi.
L’innovazione costante dei mezzi di trasporto marittimo, intesa come progresso dell’architettura navale e dell’arte della navigazione, ha segnato le sorti degli scambi commerciali e l’espansione dei primi mercati di sbocco, consentendo la cooperazione politico-economica e l’intensificarsi dei rapporti di conoscenza multiculturale tra popoli di etnia, idioma e costumi diversi. Non a caso è frequente delle regioni rivierasche lo sviluppo economico ed il benessere della popolazione costiera derivante dai traffici marittimi e risaputo che a scambi commerciali frequenti corrispondano relazioni umane più fitte e confronti di idee più vivaci. Se la specializzazione delle attività produttive nel bacino mediterraneo ha avuto luogo è stato proprio grazie all’attività mercantile di fenici e greci, prima nell’Egeo e, poi, estesa a tutto il Mare Nostrum; attività successivamente migliorata dai romani nel processo di evoluzione economico globale attraverso un utilizzo più efficace delle risorse naturali, un’ulteriore specializzazione delle navi rispetto alla tipologia di carico e le tecniche per la conservazione, il maneggio e lo stivaggio delle mercanzie.
La storia dei trasporti marittimi ha inizio vicino ai primi insediamenti umani che per necessità e praticità si stanziarono presso i corsi d’acqua; il terramaricolo necessitava di attraversare i grandi fiumi ponendosi con spirito di osservazione il problema della galleggiabilità, il cui primitivo concetto fu intuitivo e suggeritogli dai tronchi e dai rami degli alberi, con cui, in seguito, si costruì le prime rudimentali forme di imbarcazioni: le zattere. E con esse i mesopotamici navigarono lungo il Tigri e l’Eufrate; erano denominate “qufa” e avevano forma circolare come attestano alcuni bassorilievi assiro-babilonesi, per quanto la scoperta della navigazione sia molto anteriore a tali testimonianze ( ad esempio la piroga monossile in legno di quercia rinvenuta a Bracciano risale al 6000 a.C.). Anche la così detta “kalek” veniva usata da quelle popolazioni per la navigazione fluviale e la sua caratteristica fu quella di essere dotata dei primi parabordi, fatti di otri di pelli animali gonfi per difendere la zattera dalle discese ripide e dagli urti.
Le prime testimonianze sulla costruzione di vere e proprie imbarcazioni ci vengono tramandate in forma pittorica dagli egizi e risalgono al IV millennio a.C. Prive di chiglia le imbarcazioni egizie passarono dagli scafi in papiro a quelli in legno intorno al 2700 a.C. ed avevano già un’ossatura lignea che veniva ricoperta da fasciame in giunchi o in tavole di legno incastrate, di buona capienza e adattate al trasporto di capi di bestiame e blocchi di pietra filavano leggere sul Nilo perché equipaggiate con doppio albero su cui venivano inferite vele ammainabili per mezzo di carrucole e, in caso di vento avverso, di remi disposti sugli scalmi per facilitare la vogata che, disposti anche a poppa, fungevano da timone.
Essi navigarono persino in Mediterraneo, procurandosi legname in Libano e rame sull’isola di Cipro. Quando, nel 1085 a.C., gli egizi giunsero al declino furono i fenici a meritare la nomea di prodi navigatori e abili costruttori navali pur cominciando a trafficare nel mar Egeo già a partire dal precedente millennio e ad allacciare relazioni commerciali con i greci. Furono i mastri d’ascia fenici a rivoluzionare l’architettura navale ed infrastrutturale del tempo: migliorarono la tecnica di calafataggio, introdussero la chiglia per rafforzare lo scafo longitudinalmente e le costole su cui si poterono meglio fissare i corsi di fasciame, idearono anche il sistema portuale di Sidone ( distinto in porto interno, esterno ed egiziano per consentire comunque l’ormeggio in almeno uno di essi, a seconda della direzione dei venti e della politica) e i bacini di carenaggio; le loro tonde navi muovevano a vela oppure per tramite di due file di remi ed erano dotate di sperone prodiero per sfondare eventuali navi avversarie, le stesse navi che i greci ricordano coi nomi di “gauloi” ,per la loro forma a vasca, e “hippos” per via delle sculture di cavalli sulle fiancate. Le navi fenicie solcarono il Mediterraneo trasportando la porpora di Tiro, il vino, i tessuti e gli oggetti pregiati in metallo e vetro lavorato.
Quando i greci divennero i padroni incontrastati del mar Mediterraneo avevano da tempo affinato la loro arte nautica a partire dal tardo Neolitico e durante la lunga fase che ha portato alla formazione della civiltà ellenica a partire dal periodo cicladico ( in parte sotto l’influenza cretese) a quello minoico- egeo, dalla costituzione del popolo pelasgico fino agli achei, i micenei e i dori; A favorire l’attività marinaresca delle antiche popolazioni formatesi tra l’Asia Minore, l’Egeo, il Peloponneso e la Tessaglia furono le brevi distanze intercorrenti tra i vari approdi e alla miriade di isole di questa vasta area del Mediterraneo orientale; nel III millennio a.C. le Cicladi erano già al centro dei grossi traffici commerciali e i loro abitanti partecipavano in maniera attiva all’economia grazie al traffico di ossidiana, utilissima per la fabbricazione di armi e utensili, che raccoglievano sulle isole Eolie e in Sardegna; durante il periodo Miceneo III i greci avevano già rapporti commerciali con gli etruschi e si preparavano a muovere guerra, nel 1200 a.C., alla città di Troia per il dominio commerciale sul Mar Nero; con l’avvento delle città-stato intorno all’ VIII sec. a.C. il controllo politico, economico e militare sul Mediterraneo divenne incontrastato.
Un relitto risalente a questo periodo ritrovato al largo di Capo Chelidonia in Turchia aiuta a comprendere i progressi fatti dalla cantieristica navale ellenica con l’introduzione del concetto di nave “chiodata” ( in quanto il fasciame veniva fissato con dei cavicchi di legno e poi impermeabilizzato), piuttosto che “giuntata” per mezzo di cuciture in cordame di canapa fatte passare attraverso appositi fori ricavati nei corsi di fasciame; inoltre i reperti portati alla luce dall’archeologia subacquea forniscono ulteriori dati sull’entità del commercio non solo di vino, olio e di ceramica ma di rame e stagno destinato a uso bellico e fusi in pani di 25 kg circa. Il trasporto di armi era l’affare più importante dell’impresa armatoriale dell’antica Grecia e comune denominatore in tutte le epoche successive. L’abilità dei greci fu quella di migliorare le biremi e, verso il 600 a.C., di aggiungere un’altra fila di remi ideando le triremi e pentecontera. Indipendentemente dal numero di file di rematori le galee (da galeas, ossia pescespada) rappresentarono le navi da guerra più avanzate del mondo antico governate dai marinai più temerari; inoltre ai greci va il merito di aver introdotto il cassero e il castello di prua in coperta.
Con la sconfitta della lega achea e la distruzione della città di Corinto nel 146 a.C. Roma segnò la fine della Grecia imponendosi come unica dominatrice del Mediterraneo fino al 476 d.C. I romani vincitori adottarono parecchi costumi del mondo ellenico e le galee non fecero eccezione; pare che l’architettura navale dell’impero romano, però, avesse intuito e applicato in maniera rudimentale il criterio del coefficiente di finezza: contrariamente ai greci che dovevano fronteggiare la pirateria nell’Egeo senza distinguere troppo gli scafi e le attrezzature delle flotta militare da quella mercantile, i romani impiegarono le galee lunghe per scopi bellici e quelle larghe per quelli commerciali, le così dette navi onerarie. Su queste navi, che potevano raggiungere i 50 metri di lunghezza e i 15 di larghezza, i romani trasportarono carichi di ogni genere, dai metalli ai minerali, dai tessuti alle spezie, dall’olio al vino da ogni angolo dell’impero. Si presume siano state costruite navi ancora più imponenti per consentire il trasporto di obelischi dall’Egitto alla Roma capitale, navi dotate di remi e attrezzate con grandi vele quadre inferite su tre alberi ( essi inventarono anche la vela di gabbia, ossia quella posta al di sopra della vela maestra).
Quando i bizantini costruirono i dromoni (navi che adoperavano il temibile “fuoco greco”) presero a modello le snelle galee romane, anche se nel Mediterraneo il traffico commerciale era affidato ancora alle galee panciute; intorno all’anno 1000 vennero introdotte le vele latine, di forma triangolare, e i vascelli commerciali erano più piccoli delle galee romane e simili alle caravelle, le unità maggiori presentavano piattaforme con sovrastrutture alle estremità e si governavano col doppio timone, mentre nuovi empori commerciali e potenze marittime iniziarono la conquista dei mari e dei traffici mercantili: le repubbliche marinare e le flotte degli arabi ( abili navigatori, inventori dell’astrolabio ed eccezionali conquistatori capaci di assoggettare, intorno al 712 d.C. Spagna, Sardegna, Corsica, Persia e la Sicilia nel IX sec.). La repubblica d’Amalfi, la prima a sorgere economicamente e a creare con le Tavole Amalfitane un primo codice della navigazione, intensificò i traffici commerciali in tutto il basso Tirreno tenendo anche a freno l’avanzata araba, mentre i veneziani, primissimi alleati dell’impero bizantino, controllavano il settore orientale del Mediterraneo allacciarono a poco a poco relazioni commerciali in estremo oriente ( la via della seta diventò il preludio alla concezione di trasporto intermodale).
Gli istituti bancari acquisirono maggiore importanza perché capaci di coprire in anticipo i costi delle spedizioni dietro specifiche garanzie. L’impresa armatoriale era capace di creare ricchezza e potere, esercitare influenza su dogi e papi determinando decisioni politiche, muovere flotte poderose per presunte guerre religiose che in realtà celavano, è il caso delle crociate, sete di conquista, egemonia economica sui traffici di spezie, tessuti pregiati e pietre preziose (forse le caracche vennero ideate anche per rappresentare l’idea di grandezza dell’armatore attraverso la loro cospicua stazza ed incutere timore reverenziale, oltre che essere la risposta del naviglio mercantile mediterraneo alla cocca della Lega anseatica). Ai bastimenti in rotta per Gerusalemme spettò il compito di trasportare milizia e cavalli e dovettero, pertanto, munirsi di portello a poppa. Intorno al ‘300 furono introdotte alcune fondamentali innovazioni: la bussola magnetica (di cui il pinace è precursore), l’uso della clessidra a bordo per la misurazione del cammino compiuto dalla nave, il passaggio dell’unico timone al centro della poppa e la redazione di carte nautiche e tavole trigonometriche.
Col 1492, anno che apre le porte all’era coloniale, alle rotte oceaniche e a tutta una serie di scoperte in campo geografico e scientifico, gli spagnoli si macchiarono del vergognoso delitto della tratta degli schiavi, successivamente imitati anche dalle altre marinerie; la ricchezza e la stabilità delle monarchie presenti in Europa dipendeva dalle sorti dei trasporti marittimi e dall’esito delle spedizioni finanziate per individuare nuovi possedimenti e nuovi passaggi oceanici; a metà del XVI sec. comparve la poco maneggevole ed ibrida galeazza subito andata in disuso per lasciare spazio nel secolo successivo alla tartana dalla prominente prua, armata con un solo albero e vela latina oppure con due alberi di cui il trinchetto inclinato verso prua, alla gabarra, al brigantino a due alberi e vele quadre, al caicco turco, con armo monoalbero a vela quadra, e ai temibili sciabecchi dei mori che filavano veloci coi tre alberi a vele latine per gli usi commerciali e per le scorribande lungo le coste cristiane, approfittando delle potenze distratte per la corsa all’espansionismo coloniale.
E con la fine del XVI sec. gli spagnoli si appropriarono delle ricchezze azteche e introdussero anche le patate, i pomodori ed il cacao in Europa, prodotti che cambiarono le coltivazioni, le abitudini alimentari ed il gusto; la natura preziosa del carico d’oro esigeva bastimenti imponenti e ben equipaggiati di pezzi d’artiglieria pesante per fronteggiare navi avversarie, navi corsare e pirateria; i vascelli dislocavano oltre le mille tonnellate di stazza, vennero armati con cinque alberi e trentasei cannoni; per quanto l’epopea della vela ebbe alcuni importanti sviluppi nell’Europa del Nord e nel continente americano ( fu introdotta la longitudine grazie al cronometro marino e l’ottante cedette il passo al sestante verso gli ultimi decenni del ‘700, mentre i velocissimi clippers dominarono la scena fino a metà ‘800, soppiantati dalle navi composite e dall’avvento delle prime navi a vapore con cui certo non si poteva competere per velocità), la scena dei trasporti marittimi fu dominata ancora dai brigantini, dalle golette e dai trabaccoli sia per il piccolo cabotaggio che per la pesca e il commercio fra tutti gli scali entro lo stretto di Gibilterra fino all’avvento dei battelli a ruote: infatti la navigazione a vapore nel Mediterraneo ha inizio nel 1818 a Napoli e a Trieste coi battelli Ferdinando I e Carolina I; nel 1870 compaiono i primi clippers a elica transatlantici per le tratte da Genova per il Sud America e, qualche anno più tardi, i primi grandi piroscafi porta emigranti. Alla fine del XIX sec. gli alberi ed il sartiame lasciano spazio ai picchi di carico, alle eliche, si importa il guano dal Perù a scopo fertilizzante, inaugurando l’era delle coltivazioni intensive e l’Europa richiedeva sempre più carbone per via dell’avvento dei transatlantici veloci (ancora oggi a causa di una politica volutamente ottusa la movimentazione del carbone dai bacini di estrazione all’Europa intera è l’affare più importante per le compagnie di navigazione trasportanti merce alla rinfusa). Pertanto l’essere umano rappresentava merce, merce pagante e stipata in spazi ristretti e condizioni precarie, prima classe e nascita del concetto di crociera a parte, in quanto fenomeni esclusivamente d’elite. Il boom emigrante ha provocato anche l’avvento di un altro tristissima realtà, le cosiddette “navi di Lazzaro”: armatori e capitani senza scrupoli imbarcavano la povera gente estorcendo ingenti somme dietro la promessa di condurli in America e invece, dopo qualche periplo della Sicilia, li sbarcavano su qualche spiaggia d’Italia deserta facendo loro credere fossero giunti a destino….come non commuoversi e tendere la mano oggi alle persone che cercano di guadagnarsi la vita attraversando il mare sui barconi?
Tralasciando i progressi tecnologici fatti nel campo dell’industria navale prima coi motori a vapore ed in seguito con quelli a combustione interna e a ciclo diesel, cambiamenti radicali sono avvenuti solo in seguito a gravi abbordaggi e incidenti in mare che hanno favorito l’avvento delle comunicazioni, radionavigazione, radarnavigazione ed automazione navale, grazie alla costituzione di enti e organismi che hanno migliorato le leggi disciplinanti la condotta della navigazione, la salvaguardia della vita umana in mare ed il rispetto delle norme antinquinamento.
Attualmente è importante notare quanto la specializzazione delle navi a seconda della natura del carico influisca, nell’era moderna, sull’attività di “shipping”. A seconda dell’uso cui la nave è destinata e la differenza tra navi maggiori e minori, come prevista dal codice della navigazione ( le prime adibite alla navigazione d’altura e le seconde limitate entro una fascia di 6 miglia nautiche dalla costa), esse si distinguono in navi da carico, navi passeggere e navi miste; le navi da carico si suddividono a loro volta per la tipologia di rotta che compiono : le “liners” ( navi da crociera, navi “ro-ro”, navi portacontainer e traghetti…) svolgono regolare servizio di andata e ritorno, con rotte, orari ed eventuali scali intermedi prefissati, mentre le così dette volandiere o “tramps” non hanno vincoli di traiettoria ed acquisiscono il carico nei luoghi e nei tempi previsti dall’armatore o dal committente l’ordine di noleggio, trasportando merce secca alla rinfusa oppure petrolio e suoi derivati ( navi cisterna, navi gasiere o metanifere e “bulk carriers”, ecc.) ; le navi possono essere distinte anche in relazione all’apparato propulsore: i superati piroscafi o navi a vapore, come del resto le turbonavi hanno ceduto il passo alle motonavi, le più diffuse nel naviglio mondiale e alle navi nucleari, generalmente i rompighiaccio per le utilità del settore mercantile. L’utilità economica di una nave si misura in termini di stazza e di portata netta, valori che misurano rispettivamente il volume interno degli spazi utilizzabili per le merci e al peso delle stesse che la nave può trasportare.
I soggetti giuridici che rientrano nell’attività dello shipping sono il proprietario della nave, l’armatore ( ossia la persona fisica e giuridica che si assume l’esercizio della nave armandola di equipaggio, attrezzature e provviste che spesso è anche il proprietario del bastimento), l’equipaggio della nave ripartito in sezione di coperta, di macchina e alberghiera di cui il comandante è la massima autorità, il raccomandatario marittimo, che cura gli interessi dell’armatore dinanzi alle autorità marittime e consolari e verso altre figure implicate nell’economia dei trasporti nei porti di approdo, il sensale marittimo ( un mediatore che procaccia affari tra armatore e vettore marittimo) e lo spedizioniere marittimo, ossia l’agente che provvede per conto di mittente o destinatario a compiere le operazioni di spedizione, imbarco e sbarco delle merci, incluse le pratiche doganali annesse al trasporto.
Generalmente i contratti di utilizzazione delle navi mercantili si riassumono in contratto di locazione, noleggio (a tempo o a viaggio) e trasporto; nel primo caso il proprietario cede la gestione ad un conduttore che ne assume la responsabilità dietro un canone stabilito; nel contratto a noleggio è l’armatore a provvedere alla gestione nave per conto del noleggiatore durante il viaggio o il periodo pattuito dietro un certo compenso; infine il vettore marittimo, stipulato il contratto di trasporto, si impegna a trasferire cose o persone, da un luogo all’altro, per contro a una quota prefissata. Va da sé che il volume di affare di una compagnia di navigazione dipende dal numero di noli contrattualmente portati a termine nell’arco di un anno, dall’efficienza delle unità navali componenti la flotta, dalla relativa stazza e portata netta e dall’andamento dei mercati internazionali ( andamento in borsa delle materie prime, produzione o sovrapproduzione delle materie prime e fluttuazioni cicliche).
Costituzionalmente e di fatto i governi dei Paesi europei a vocazione marinara e con scarsità di materie prime dovrebbero difendere l’attività dei trasporti marittimi, promuoverla attraverso l’efficienza della propria flotta, dei porti e delle infrastrutture, garantendo la formazione degli equipaggi cui si dovrebbe tramandare l’arte marinaresca, cui si dovrebbe garantire la rivalutazione e il ruolo formativo degli istituti nautici e l’ingresso nel mondo del lavoro. Invece si concedono fondi a interessi irrisori e sgravi fiscali a quegli armatori che incentivano la produzione dell’industria pesante commissionando la costruzione di nuove navi ( un paio nel Paese che li ha avvantaggiati con prestiti e incentivi, tanto per gettare fumo negli occhi, e a decine nei Paesi dell’est asiatico dove tutto costa meno), armatori che magari, oltre a gestire navi battente la bandiera dello Stato di appartenenza, gestiscono altri traffici commerciali con nomi diversi e con navi battenti bandiere ombra, vale a dire bandiere di comodo, navi immatricolate nei Paesi del Terzo Mondo, quelli compiacenti, i quali relegano un trattamento fiscale simbolico quantomeno e la possibilità di occultare i profitti derivanti dall’attività armatoriale. E a ciò si aggiunga la possibilità di eludere le norme previdenziali e la libertà di assumere e licenziare il personale, spesso extracomunitario.
Fatto sta che in Paesi come l’Italia, il settore dei trasporti marittimi rappresenta la spina dorsale dell’economia, un’economia che dipende dalle materie prime di cui scarseggia, un’economia basata sull’industria della lavorazione e trasformazione di tali materie in prodotti che vengono assorbiti dal mercato interno o, spesso, rivenduto all’estero, via mare ovviamente. Confindustria necessita delle navi e degli armatori, i soggetti che importano i minerali e i metalli grezzi alla metallurgia e il carbone per gli altiforni, dai quali l’ente per l’energia ricava col termoelettrico i soldi dai contribuenti, inquinandogli l’aria nel frattempo.
Lo Stato da all’armatore senza ricevere, lo deve fare. Ecco perché oggi l’armatore si può persino permettere di passare sotto bandiera nazionale il naviglio battente le bandiere ombra: lo stato per tramite dei sindacati gli ha regalato il doppio registro, ossia ha dato la possibilità all’armatore di imbarcare equipaggi extracomunitari sulle navi nazionali con restrizioni irrisoriamente limitate e leggi che s’eludono con facilità ( e ce ne sono di navi battenti bandiera italiana con solo due membri d’equipaggio italiani a bordo ed i restanti venti asiatici). L’armatore prende dai governi senza dare e non vuole garantire l’addestramento dei futuri equipaggi nazionali e la prosecuzione della tradizione marinaresca con la formazione continua di generazioni di ufficiali e marinai. E questo consisterebbe in un indotto occupazionale considerevole e risolutivo per migliaia e migliaia di persone, un indotto ostruito e negato.
Il governo, le istituzioni sindacali e i partiti politici guardano altrove: a parte il personale navigante che opera in acque nazionali, i marittimi della lunga navigazioni, le braccia dell’economia, spesso non hanno possibilità di votare e, pertanto, non sono appetibili politicamente e ,fin tanto che non sarà loro facilitato per tramite del voto telematico, continueranno ad essere bistrattati e lavorare in regime di precariato; inoltre, leggi obsolete non consentono loro di scioperare all’estero, dove si trovano per la maggior parte dell’imbarco ( e arrecherebbero maggior danno agli interessi dell’armatore); da qualche tempo si inventano le accademie marittime per avere figure professionali iniziali a buon mercato con contratti a progetto e dopo aver estorto loro la quota per una formazione già fruibile in realtà presso gli istituti nautici. Gli istituti nautici necessitano degli ammodernamenti dei laboratori sperimentali e delle apparecchiature per la simulazione della navigazione da parte del ministero della pubblica istruzione, che al contrario pretende di eliminare la navigazione astronomica dal programma e modificare l’ordinamento scolastico, che vorrebbe i futuri ufficiali laurearsi.
Pensando che certi testi di economia dei trasporti vorrebbero ancora dare a bere che soltanto lo 0,5 del prodotto interno lordo dipenda dall’industria armatoriale ci si rende conto di vivere in un Paese anticostituzionale e per niente democratico che ha depauperato l’Italia, con i suoi ottomila chilometri di costa, del suo diritto ad essere una Patria di naviganti, cancellando con l’assenteismo, con la politica dell’omertà e della corruzione la storia millenaria della sua marineria. Un governo pronto a svendere le navi passeggeri che garantiscono le connessioni con le isole a società straniere, un governo con le mani in tasca e nelle tasche denaro sporco di carbone.
Si vuole realmente punire l’evasione fiscale, uscire dalla crisi e creare occupazione?
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