La guerra in questo momento è a due ore da noi. A due ore da dove stiamo leggendo. Ma il sole risplenderà anche in Siria. C’è chi crede che questo possa accadere: “Io sto con la sposa” è il manifesto della libera circolazione.
Intervista a Marta Bellingreri, dello staff del film
Conobbi Marta il 19 aprile dello scorso anno, durante una cena tra amici. Viveva in Tunisia, in quel periodo, ed era in Italia per discutere della situazione tunisina, in una conferenza che si teneva a Ferrara. Scambiammo qualche parola fuori dal locale dove ci trovavamo. Mi colpirono i suoi occhi, occhi di una persona che ha guardato molto e molto lontano, occhi coraggiosi, occhi di una persona che lotta. Mi colpì anche il suo modo di parlare, quel suo lasciare viaggiare le parole nell’aria, per qualche secondo ancora, dopo averle pronunciate. Mi colpì la sua eleganza. Forse Marta porta nei suoi gesti i profumi, gli sguardi ed i racconti delle donne che ha conosciuto durante il suo cammino. Di quelle “donne che sfamano la Tunisia con il loro lavoro da braccianti agricole. Che hanno fatto le manifestazioni del 2011, hanno votato alle elezioni, continuano ad arrabbiarsi. Ma che al contrario di bloggers, femministe storiche, associazioni militanti, sono rimaste quasi invisibili. Invisibili tra i campi e i rami d’alberi che trasportano dai boschi” come scrive in un articolo pubblicato sul newsweek.
Iniziamo con il capire meglio di cosa stiamo parlando. “Io sto con la sposa” è solo un film, è realtà ed è verità. E’ un viaggio compiuto tra il 14 ed il 18 novembre 2013. Nel giro di poco tempo è diventato un caso sulla rete ed è approdato alla 71esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Orizzonti, fuori concorso. Film nato da un’idea del giornalista italiano Gabriele Del Grande, del poeta siriano rifugiato a Milano Khaled Soliman Al Nassiry e di Antonio Auguliaro, è un progetto “prodotto dal basso” per aiutare un gruppo di migranti, fuggiti dalla guerra in Siria, scampati ad un naufragio a Lampedusa, arrivati a Milano e da lì diretti alla Svezia. Con il crowdfunding, 2.600 persone, da Arabia Saudita, Australia, Egitto, Israele, Italia e Stati Uniti, hanno donato 98.151 mila euro. Ma di cosa parla “Io sto con la sposa”? Parla proprio del poeta palestinese siriano e del giornalista italiano che incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra, e che decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati però, decidono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un’amica palestinese che si travestirà da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che si travestiranno da invitati. “Quale poliziotto di frontiera chiederebbe mai i documenti a una sposa?”. Così mascherati, attraverseranno mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Un viaggio ricco di emozioni, di cultura, di vita, che racconta un’Europa diversa… Un’Europa solidale e goliardica che si fa beffe della legge e dei controlli.
Dove ti trovi ora, Marta?
Sono a Beirut. L’ultima volta che sono stata in Libano era il 2008. In questi sei anni la città è cambiata tantissimo. Non soltanto per i volti nuovi ora visibili, per le zone che si sono riempite di bar e gallerie d’arte, per le costruzioni finite e nuovi quartieri. Cambiata lo è anche dalla guerra così vicina. Parlo della guerra in Siria naturalmente, con il suo milione di rifugiati in Libano (un quarto della popolazione libanese). Sono qua per la mia ricerca di dottorato in Studi Culturali. Da Beirut sono partite le navi dei Fenici che oltre a Cartagine e Tangeri, hanno fondato la mia città d’origine, Palermo. Da lì vengo, anche se negli ultimi nove anni ci ho vissuto solo per pochi mesi.
Qual è la tua formazione? E quali sono i progetti più importanti ai quali hai partecipato?
Mi sono laureata all’Orientale di Napoli e ancor prima di laurearmi ho iniziato a lavorare: come insegnante di italiano per stranieri, in Giordania, Italia e Tunisia; come mediatrice culturale e traduttrice a Lampedusa e a Roma; come coordinatrice di un progetto di cooperazione con donne in Tunisia. Ho fondato un’associazione a Palermo di nome Di.A.Ri.A. (Didattica, Arte, Ricerca, Azione) e abbiamo realizzato il progetto “La parola al corpo” per l’insegnamento della lingua italiana a stranieri. Ora non abbiamo progetti in corso, ma abbiamo una sede a Palermo dove, oltre ai corsi di danza, capoeira, teatro, tai chi, per adulti e bambini, organizziamo eventi culturali. I miei lavori sono stati diversi ma legati sempre al mondo arabo, alla migrazione e alle donne. Ed adesso il mio progetto di ricerca per il dottorato è su “Arte e attivismo delle donne in Libano e Palestina”.
Come definiresti il tuo lavoro?
Se dovessi definire il mio lavoro direi semplicemente che è legato alle relazioni, tramite la lingua o la ricerca. Ed è proprio nel costruire una nuova geografia delle relazioni che ho pubblicato due libri: uno si chiama “Lampedusa” ed è un’intervista alla sindaca Giusi Nicolini, con intermezzi narrativi sull’isola e con storie di migranti. Il secondo si chiama “Il sole splende tutto l’anno a Zarzis”, pubblicato a giugno, e raccoglie le avventure di adolescenti tunisini in viaggio per l’Europa e le storie parallele delle loro famiglie che sono andata a trovare nei due anni a Tunisia, dal sud al nord, nei villaggi e nelle periferie. La prefazione del libro, scritta da Gabriele Del Grande, si chiama “Una nuova estetica della frontiera”. Ed è proprio Gabriele che con questa idea per la testa mi ha invitato a partecipare a “Io sto con la sposa” il più strepitoso progetto a cui abbia mai partecipato.
Cos’ha rappresentato e cosa rappresenta per te “Io sto con la sposa”?
Tutto iniziò quando mi trovavo a Tunisi. Ero indecisa sul lasciarla o meno, quando sono stata invitata al finto corteo nuziale che ci permise poi di attraversare le frontiere europee per portare cinque palestinesi siriani in fuga dalla guerra. Erano arrivati, o meglio sopravvissuti a Lampedusa. Sentivo ancora il silenzio e l’orrore della tragedia. Quando sono stata invitata a sfidare la frontiera non ho esitato un attimo e da Tunisi sono volata a Milano dove i primi giorni ci siamo occupati della preparazione del matrimonio: vestiti, parrucchiere, saluti. Infine la partenza: Milano verso la Francia, poi Germania, Danimarca, Svezia. Ho creduto al successo di questo progetto fin dal primo momento: non solo per la fiducia nei registi Khaled, Gabriele e Antonio. Ma perché era entusiasmante per tutti parlare di rifugiati in giacca e cravatta, ricevere auguri per le nozze piuttosto che parolacce poiché stranieri. Perché c’erano e ci sono le nostre vite in gioco. Le nostre vite sono fatte di un Mediterraneo di vita e non di morte. Noi viaggiamo, studiamo, scriviamo e conosciamo un mondo che poi viene raccontato diversamente. Che viene soffocato. Nel mio secondo libro alla fine ho ringraziato tutti gli harraga (quelli che “bruciano” la frontiera attraversandola illegalmente), perché con il loro coraggio stanno scarabocchiando le cartine geografiche e le nostre vite stanno già disegnando una geografia transnazionale. Non siamo tanti e non siamo così pochi: saremo a Venezia, al Festival del cinema, dopo che con tremila donazioni il crowdfunding ha raggiunto novantotto mila euro. Durante il viaggio io sono stata una delle guidatrici di una macchina con i magnifici Abu Nawwar e Mona. Sono stata anche traduttrice in qualche momento ma soprattutto sono stata appassionata ed emozionata tutto il tempo. Ed era questo ha fatto la bellezza del viaggio-film. Ventitré persone felici di stare insieme: ricercatrici, giornaliste, studenti. Più la parte tecnica che non ha filmato o fotografato indifferentemente. In fondo, abbiamo tutti disobbedito perché non ci sono tante soluzioni… E noi abbiamo deciso di essere tutti traghettatori di positività. Per questo il film non si fermerà a Venezia, ma sarà in tutti i festival che lo premieranno e inviteranno, nelle piccole associazioni ed in tutti i paesi che lo hanno supportato.
Qual è l’obiettivo del lavoro?
Questo è l’obiettivo: che non ci si fermi! “Io sto con la sposa” è il manifesto del pensiero della libera circolazione. Ma questo entusiasmo non deve farci dimenticare che la guerra continua, che nessuno la sta fermando, che durerà anni e la sposa e lo sposo viaggeranno con il cuore ferito perché in Siria e a Gaza muoiono ogni giorno migliaia di persone. La guerra in questo momento è a due ore da dove sono seduta. Al confine con la Siria, inventata, voluta, prolungata. La guerra è la prova della continua violenza della storia dell’uomo. I crimini insensati che si compiono sono incomprensibili per esseri che respirano, eppure ce li vediamo davanti. Mia nonna marchigiana mi dice sempre che ha visto la guerra: i tedeschi che occupavano l’Italia durante la guerra e che sparavano perfino alle mucche.
Cosa non capiscono e cosa non sanno gli italiani?
L’Italia ha dimenticato gli uomini, le donne, i bambini che sono emigrati e la violenza che si è compiuta. L’Italia continua a leggere che Israele si sta difendendo mentre è colei che massacra e legge che la Siria è il paese del male. La Siria è il paese più bello che io abbia mai visto. In Siria vi sono tutte le religioni, le lingue, le scritture e la luce… La luce ha fatto splendere Damasco, Aleppo, Palmira, Homs, Hama… E, come il titolo del mio libro “Il sole splende tutto l’anno a Zarzis”, credo che il sole risplenderà anche in Siria, un giorno, così come la Palestina si libererà forse, tra secoli, di un’occupazione coloniale operata in nome del popolo ebraico… Non possiamo intervenire sulla violenza della storia, ma “stiamo con la sposa” perché questo è un modo per intervenire sulla storia.
Gabriele Del Grande, uno dei tre registi di “Io sto con la sposa”, da alcuni anni ha fondato l’osservatorio Fortress Europe e raccoglie storie, testimonianze, foto, dettagli sui migranti che approdano a Lampedusa e sulle coste italiane. Un blog, il suo, fatto di conoscenza e consapevolezza. Su “Io sto con la sposa” dice: «Ciò che ne è venuto fuori è un manifesto sulla libera circolazione degli uomini, un film che è un atto civile, un’azione di disobbedienza contro leggi restrittive che non eliminano i problemi ma li accentuano: i 20 mila morti nel mare mediterraneo in 20 anni hanno responsabilità politiche europee precise. Ci siamo assunti il rischio di un processo e questo film è un atto di autodenuncia. Al momento dell’uscita, potremmo essere condannati fino a 15 anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma siamo pronti a correre il rischio. E guardate che in ballo c’è molto di più del nostro lavoro! C’è la possibilità di dimostrare che questo amato Mediterraneo non sia soltanto un cimitero, ma che possa ancora essere il mare che ci unisce.»