Articolo di Sara Bellucci
Nel nord del Kosovo si è risvegliata una polveriera che sembrava sopita da tempo, come se per anni fosse rimasta avvolta in un silenzio quasi irreale. Il “casus belli” che ha fatto scoppiare di nuovo la tensione è stato l’embargo reciproco tra Kosovo e Serbia sulle importazioni commerciali. Lo scambio import/export tra i due paesi è di un’importanza vitale, soprattutto per il Kosovo, che è stato da sempre tra i paesi più poveri dei Balcani e, sfavorito anche dall’incertezza del suo status internazionale, rimane un Paese dove il tasso di disoccupazione e di povertà riguarda quasi la metà della popolazione.
È ancora presto per stimare i danni economici di questo blocco commerciale durato quasi due mesi (la situazione si è sbloccata il 16 settembre scorso), ma certo è che il Kosovo importa dalla Serbia beni per 400 milioni di euro, compresi beni essenziali quali lo zucchero, l’olio, il frumento e l’energia elettrica. I prodotti provenienti dalla Serbia non sono mai stati soggetti ad alcuna tassazione. Solo dopo il via libera delle Nazioni Unite al governo kosovaro di usare i propri bolli doganali, i due paesi hanno messo al bando qualsiasi importazione commerciale reciproca.
In seguito alla decisione serba di non riconoscere i bolli doganali del Kosovo – in quanto non riconosciuto come Repubblica indipendente dal governo di Belgrado – Pristina ha imposto, a sua volta, l’embargo del Kosovo sulle importazioni serbe attraverso i valichi doganali di Brnjak e Jarinje. La conseguenza di questo blocco commerciale da parte di ambedue i Paesi, è stata la decisione del Primo Ministro kosovaro Hashim Thaçi di inviare forze speciali della polizia kosovara di etnia albanese nel nord del Paese per prendere il controllo dei due punti di frontiera con la Serbia.
Tentando di insediarsi a Brnjak e Jarinje le forze speciali si sono scontrate con la popolazione serba di Leposavic, Rudare, Mitrovica e Zubin Potok, provocando incidenti nella notte tra il 25 e il 26 di luglio che hanno portato all’uccisione di un poliziotto kosovaro. Questa decisione unilaterale del governo di Pristina preoccupa non poco le organizzazioni che amministrano il Kosovo: UNMIK, l’amministrazione ad interim della Nazioni Unite in Kosovo; KFOR, il contingente di truppe peacekeeping internazionale della NATO ed EULEX, lo schieramento di forze di polizia dell’UE. L’Unione Europea si è subito distaccata, condannando l’operato di Thaçi.
Dopo la dichiarazione d’indipendenza del 17 febbraio 2008, il governo kosovaro ha provato più volte a riprendere il controllo del nord del Paese, ma questa volta è stata un’azione “in solitaria”, ossia decisa senza la consultazione con le comunità internazionali. La KFOR è intervenuta per tentare di placare le rivolte, ma a ben poco è servito: sono riusciti a negoziare il ritiro delle forze speciali kosovare, ma hanno mantenuto i blocchi sulle strade nelle zone controllate dai serbi, hanno dichiarato i due valichi “zone militari” ed hanno, infine, chiuso il ponte sul fiume Ibar, che divide in due la città di Mitrovica.
La tensione è scoppiata violentemente quando un gruppo di serbi a nord del fiume ha dato alle fiamme il valico di Jarinje, che è poi passato sotto il controllo della KFOR americana. EULEX si è limitata a dichiarare che “si sta coordinando strettamente con la KFOR per mantenere la sicurezza”, mentre Thaçi ribadisce che non ci sarà nessuno scambio commerciale con la Serbia attraverso il valico, che rimaneva aperto solo al transito di veicoli per passeggeri.
I posti di frontiera rimangono quindi sotto il controllo di KFOR ed EULEX, creando però nel contempo un attrito con la popolazione serba locale, sfociato poi in uno scontro tra le forze NATO e i serbi, in cui sono rimasti feriti 10 persone, tra soldati e civili. Belgrado ha condannato l’uso della forza da parte delle truppe KFOR verso i dimostranti serbi, mentre si continuano a costruire barricate, rafforzate ed assediate dai serbi stessi.
Nel frattempo i colloqui per i negoziati tra Kosovo e Serbia a Bruxelles sono sospesi. Il capo negoziatore serbo ha dichiarato che il negoziato con Pristina non riprenderà se non si troverà prima una soluzione alla crisi nel nord del Kosovo, scagliandosi contro l’uso della forza delle truppe NATO per cambiare la situazione della regione.
In questo “conflitto di esclusione” tra Serbia e Kosovo il concetto di frontiera come definizione dell’identità nazionale ed esclusione “dell’altro” è basilare. I serbo-kosovari sono circa 60-70 mila (rappresentano circa il 7% sul totale della popolazione) e si rifiutano di vivere sotto le leggi del Kosovo perché appartenenti all’identità ed allo Stato serbo, da cui non si vogliono in nessun modo staccare. Riconoscere la frontiera sarebbe quindi come essere esclusi dalla loro patria intaccando la loro identità nazionale.
In questo delicato quadro le posizioni dei rispettivi paesi si stanno polarizzando: ossia la Serbia continua fortemente a considerare il Kosovo come territorio serbo e, di conseguenza, rigetta l’idea di riconoscere la sovranità ed i confini del Kosovo; dall’altro lato il Kosovo è sempre più convinto, o forse ora come non mai, che i serbi che si trovano nello Stato kosovaro si debbano adattare, che lo vogliano o no, perché quello è territorio sotto la legislazione di Pristina. Da ambedue le parti arrivano messaggi per soluzioni pacifiche di questa crisi, senza la necessità di entrare in guerra, pur con la ferma intenzione di proteggere e difendere i diritti dei propri cittadini.
Fermo restando questo punto, la situazione rischia di esplodere, se non altro perché si va fomentando un contrasto ed un odio etnico reciproco che potrebbe rievocare un passato di violenze molto recente ed ancora molto vivo nei ricordi non solo dei più adulti, ma anche di nuove generazioni, cresciute in un Kosovo da ricostruire, tra carri armati e filo spinato, pronti a scendere in strada per difendere quello in cui credono. La cosa certa è che le tracce della guerra nel Kosovo odierno sono ancora molto vive, non solo nelle menti ma anche nei palazzi, nelle strade, nei ponti, nei lunghi casolari che erano basi dell’esercito serbo dove avvenivano interrogatori e chissà cos’altro.
Quello che ha attirato subito la mia attenzione appena arrivata a Podujevo (prima città dopo il valico di Merdare con la Serbia) è il color mattone: strade fiancheggiate da case in ricostruzione, la maggior parte di proprietà di kosovari che vivono tutto l’anno all’estero e che tornano d’estate a lavorare senza sosta ed instancabilmente su quello che è rimasto dopo i bombardamenti e ricostruiscono, lentamente e silenziosamente, all’ombra delle grandi potenze occidentali e delle rispettive amministrazioni.
Ricostruiscono non solo le proprie case, ma anche un’intera nazione che sta provando a rinascere dopo la distruzione dei bombardamenti. Una nazione fiera di essere riuscita ad uscire da un post-guerra tanto difficile in un territorio quasi totalmente raso al suolo; fiera delle proprie origini etniche che ha dovuto mettersi in discussione ed al passo con l’Europa (o almeno ci sta provando); una nazione che deve fare i conti con le migliaia di desaparecidos, scomparsi durante la guerra e di cui probabilmente non si saprà mai niente.
È stato commovente ascoltare l’orgoglio di essersi dichiarati indipendenti nel 2008, di essere una neonata nazione, come indica la scritta gialla “Newborn” nel centro di Pristina. Ma soprattutto l’orgoglio di avere uno Stato albanese, perché, come anche per i serbi, questo è fondamentale: avere uno Stato che li rappresenti non solo politicamente, ma anche etnicamente. Proprio per questo motivo probabilmente, molti non hanno fiducia nelle amministrazioni internazionali che operano in Kosovo, perché il desiderio è, come è naturale che sia, quello di autogovernarsi. Una delle parti che si contrappone più fortemente all’attuale governo ed al suo modus operandi è il Lëvizija Vetëvendosije, il Movimento per l’autodeterminazione, che lotta e promuove azioni per realizzare il diritto ad autodeterminarsi del popolo kosovaro.
La realtà delle cose è che questo reciproco irrigidimento delle posizioni, questa espulsione commerciale tra Serbia e Kosovo, che porta direttamente ad una differenziazione immediata tra “noi” e gli “altri”, rischia di innescare scontri, violenze e vendette personali. Infatti, oltre gli scontri che hanno avuto una risonanza internazionale, ci sono piccoli focolai che di quando in quando esplodono: aggressioni per strada o attacchi gratuiti a cittadini serbi, e viceversa, accadono sempre più spesso, soprattutto nelle enclavi serbe, come Mitrovica e dintorni, Peç/Peja, dove il Patriarcato della città (un bellissimo monastero ortodosso) è protetto dalla KFOR ed a Gracanica, poco lontano da Pristina, dove, anche qui, il monastero ortodosso è sotto la protezione delle truppe NATO.
L’estremizzazione delle proprie posizioni non è mai positivo in politica. Allontanarsi da quei pochi passi in avanti fatti negli anni è un segnale decisamente negativo per due Stati che hanno, nella storia, accumulato molti conti in sospeso. Se Belgrado e Pristina non saranno disposte ad accettare dei compromessi e a placare gli animi dei rispettivi cittadini, a poco servirà la presenza in loco delle truppe internazionali NATO e dell’EULEX per scongiurare l’ennesimo scontro tra due popoli che da molto tempo si contrappongono e contrastano.