Articolo di Anna Felicia Nardandrea
Roma (ITALIA)
La chiave dell’ascensore
di Agota Kristof
con Francesca Palmas
regia Massimo Palazzini
Teatro Trastevere – Via Jacopa dé Settesoli, 3 – ROMA
dal 20 aprile al 2 maggio – ore 21.00; domenica ore 18.00
“Prima che il sipario si alzi, si sente un lungo urlo” – avverte Agota Kristof introducendo il lettore nella scena fisica ed esistenziale della Chiave dell’ascensore, pièce teatrale che, insieme all’Ora grigia, anticipa e condensa moventi e motivi della Trilogia della città di K., primo romanzo e riconosciuto capolavoro della scrittrice ungherese.
L’urlo è il solo gesto che la protagonista di questa breve ma intensa scrittura può compiere per dare voce alla sua identità mutilata e costretta in un corpo invalido, per testimoniare la propria verità. Un urlo, tanto necessario quanto disperato, che strazierà il silenzio e abbatterà i muri asfittici e inaccessibili del luogo claustrofobico in cui la scena si concentra.
È a questo primo e ultimo gesto che ripenso mentre prendo posto nella piccola platea, accuratamente rimessa a nuovo, del Teatro Trastevere, dove la Chiave dell’Ascensore è in scena dal 20 aprile al 2 maggio, interpretata da Francesca Palmas e diretta da Massimo Palazzini.
L’urlo – scrive Elisabetta Rasy nell’introduzione all’edizione italiana – è ciò che salva la scena delle relazioni in atto dal perdersi definitivamente in una musica funebre. Ed è con una musica funebre – il Requiem di Mozart – che il sipario si apre su un mondo segnato dalla desolazione, dalla crudeltà, dall’ambiguità del doppio: un mondo appartenuto al vissuto della scrittrice-profuga ungherese ma che non cessiamo, per questo, di riconoscere anche come nostro.
Abdicando all’impianto naturalistico di questa “favola buia”, il regista ha sostituito la sedia a rotelle, dove la protagonista, ormai sorda e cieca, è ridotta a vivere, con un colorato e simbolico girello: un oggetto scenico che, grazie alla magica polisemia del segno teatrale, si trasforma a vista, nel corso dello spettacolo, in ventre materno, bunker che ingabbia, pozzo della memoria e luogo della fantasia. Nella voce di Francesca Palmas, protagonista assoluta ed eccezionale di questo spettacolo, riecheggiano anche le voci degli altri protagonisti – il marito, il medico, il guardiacaccia – personaggi assenti-presenti in scena se non come pupazzi, ancor più pervasivi e inquietanti nel loro statuto di simulacri teatrali. E la stessa grande pianura, meta sognata dalla protagonista e altrove immaginato al di là della finestra, nella regia di Massimo Palazzini non è più di un quadro costretto in un arco scenico, scatola magica di un teatrino domestico che rende esplicito, esibendolo, il gioco del sacrificio dell’altro e di sé.
Sia nell’Ora grigia, sia nella Chiave dell’ascensore – scrive ancora Elisabetta Rasy – agiscono, mascherati da piccole situazioni intimiste, ampi cerimoniali di tortura e messa a morte. Oltre la maschera delle relazioni marito-moglie, uomo-donna, vittima-carnefice c’è l’eterno conflitto dell’uomo contro se stesso e c’è la guerra che invalida la mente e il corpo – leggiamo nelle note che il regista ci consegna. E rumori di guerra, durante lo spettacolo, interrompono bruscamente “la voce dolce e un po’ cantante” della protagonista, alternandosi a canti d’amore e urla soffocate.
Nell’immobilità di un racconto teatrale in cui l’unica “azione” – agita e non parlata – coincide con la messa a morte del marito-carnefice per mano della moglie-vittima, Francesca Palmas ha dato della protagonista un’interpretazione straordinariamente efficace. Le parole di questo breve racconto teatrale, veicolate attraverso la sapiente mimica facciale, la flessibilità vocale e i microsegni di un corpo d’attrice parlante malgrado la semi-infermità del personaggio, hanno saputo incatenarci all’ascolto, rendere partecipata e a tratti commossa la nostra presenza nel buio della sala.