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Viaggiare è stato sempre connesso alla storia dell’umanità, fin dalla notte dei tempi. Se facciamo riferimento alle Sacre Scritture, possiamo dire che il “trasferimento forzoso” di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden al più modesto pianeta Terra per aver disobbedito e mangiato il frutto del peccato, può essere considerato, a suo modo, il primo viaggio della Storia.

Fu certamente un viaggio contrassegnato, fin dalla partenza, da rimproveri più che da consigli beneauguranti e, a giudicare dalle rappresentazioni pittoriche che mostrano Adamo ed Eva curvi e oberati dal senso di colpa, entrambi presagivano che la meta che li aspettava fosse tutt’altra cosa rispetto al “centro benessere” che lasciavano alle spalle.

Al di là dei racconti dell’Antico Testamento, anche le discipline che studiano l’evoluzione umana ci confermano che i viaggi hanno sempre caratterizzato la vita dei nostri antenati. Già oltre un milione di anni fa i nostri progenitori ominidi si spostarono dal continente africano (Out of Africa I e II, così si chiamanole più note migrazioni che consentirono all’uomo moderno di uscire dall’Africa e colonizzare l’Eurasia), sollecitati anche da cambiamenti climatici che ne condizionavano la sopravvivenza stessa. Spostarsi verso l’ignoto era una necessità prioritaria. Obiettivo di quei viaggi era, infatti, la conservazione della specie perché spostarsi aveva a che fare con la difesa della propria vita e della comunità della quale si era parte. Non è casuale che nello scontro tra gli stanziali uomini di Neanderthal e gli erranti Sapiens, furono proprio questi ultimi ad avere la meglio nell’evoluzione della specie. Ancora oggi, la lingua tibetana racchiude nella definizione stessa di “essere umano” (A-Go Ba) il concetto di “viandante”, “chi fa migrazioni”.

Nel Medioevo, la pratica dell’itinerare avveniva spesso per ragioni di carattere religioso da parte di pellegrini animati da spirito penitenziale, ma non mancavano, al loro fianco, mercanti, artisti, avventurieri e banditi che attraversavano strade appena battute con approccio più laico. I diversi viatici che portavano con sé (viatico è, non a caso, proprio ciò che era necessario per affrontare il viaggio stesso) testimoniano il loro personale orientamento mentale verso la meta da raggiungere: testi devozionali piuttosto che libri conto. In ogni caso, per tutti era consuetudine lasciare disposizioni testamentarie sui propri beni (quando ve ne fossero) a favore dei familiari rimasti a casa ad attenderne il ritorno, non sempre certo.

Per fortuna viaggiare non ha sempre avuto delle poste in gioco così alte come la sopravvivenza in senso stretto e, neppure, rischiare seriamente di non ritornare più tra i propri affetti. Il tema del viaggio sganciato dalla necessità ha, fortunatamente, caratterizzato i periodi storici successivi fino trasformarlo e alleggerirlo dai presagi di morte e conservazione del genere umano.

Una nuova idea ha preso avvio tra il XVI e il XVIII secolo, quando in Europa si incarnò il concetto di viaggio come attività per capire il mondo uscendo dalla propria realtà, per penetrare in un’altra inesplorata e vederla dal maggior numero di angolazioni possibili. La principale manifestazione di questa idea è rappresentata dal cosiddetto Grand Tour, ossia il viaggio di istruzione che i giovani rampolli delle più importanti casate nobili intraprendevano attraversando l’Europa continentale. Per i viaggiatori del Grand Tour si trattava di affrontare un vero e proprio programma di istruzione sul campo dove il termine viaggio era sostituito da tour, ossia giro, quasi a indicare una partenza e arrivo nel medesimo luogo, senza soluzione di continuità.

Erano viaggi che duravano mesi, talvolta persino anni interi, e che avevano come tappa una rete fittissima di città (molte italiane) nelle quali, attraverso il salutare esercizio del confronto e dello scambio, si poteva apprendere di arte, politica, costumi, in una parola di tutte quelle pratiche e saperi utili alla formazione dei giovani gentiluomini del tempo.

Oggi, grazie al migliorato tenore di vita e alla tecnologia che facilita spostamenti rendendo il mondo più alla portata di tutti, viaggiare è una attività meno d’élite. Ogni motivo è buono per fare un viaggio: per festeggiare un evento gioioso; per dimenticare un lutto; per uscire dalla routine e sperare che accada qualcosa di nuovo. Viaggiare ha, infatti, sempre un effetto sulla nostra anima. “Che si tratti di diversivo, distrazione, fantasia, moda, cibo, amore e paesaggio, abbiamo bisogno di viaggiare come l’aria che respiriamo” diceva Bruce Chatwin, uno che di viaggi se ne intendeva. Viaggiare non è quindi solo andare in vacanza, fare una pausa in cui staccare da tutto ma, piuttosto, un modo per immergersi totalmente nel flusso vitale. Quando si viaggia, lo sguardo diventa più attento a percepire le differenze e la novità dei luoghi nuovi, il gusto è più sensibile ai sapori della “cucina altra”, mentre l’orecchio è pronto a cogliere ogni suono che provenga da luoghi o persone incontrate su strade lontane anni luce dalla quotidianità.

Ma è possibile affermare che viaggiare è un modo per raggiungere la felicità? A un amico che credeva di liberarsi degli affanni viaggiando, Seneca diceva “L’animo devi mutare, non il cielo”. Eppure non c’è terapia più istintiva che prescrivere un viaggio per curare ansie, insoddisfazioni, solitudini e abbandoni.

Nulla come un cambiamento di prospettiva, anche solo geografica, può alleviare le nostre piccole e grandi inquietudini. Pare che Ippocrate, vissuto nel V secolo A.C. e considerato il padre della medicina, strappasse i malati alle famiglie di appartenenza per mandarli su un’isola perché considerava fondamentale l’allontanamento dai luoghi che avevano generato il malessere. Forse è nata proprio così la Trip Therapy, la terapia del viaggio, come trattamento per riconnettersi con sé stessi, ricomporre disarmonie, alleviare pressioni sociali e lavorative, rigenerare la propria mente e il proprio corpo. Visitare luoghi stranieri offre, infatti, molti benefici e poche controindicazioni: ci aiuta a percorrere strade mai battute, a cambiare opinioni, a guarire dai pregiudizi, a trasformare sostanzialmente noi stessi.

Anche se Pavese diceva che “viaggiare può considerarsi una brutalità perché ci obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il confort familiare della casa e degli amici” solo così, privati di tutto, tranne che delle cose essenziali, se si supera la prima fase di sconcerto e disorientamento, una volta cominciato è difficile fermarsi. Viaggiare, infatti, è come frequentare una scuola di umiltà in cui si toccano i propri limiti ma si scoprono anche risorse sconosciute. È un luogo dove si fa esperienza di fratellanza e sorellanza con uomini e donne che di quel viaggiare sono la vera meta.

E allora non resta che scendere dal proprio letto di piume, scegliere la destinazione migliore e prepararsi a tornare diversi perché, nonostante il batticuore al pensiero di essere in un posto sconosciuto, lontano da tante certezze, ovunque si decida di andare è importante non scordare che le stelle brilleranno sempre, fedeli e rassicuranti, e che gli antichi dolori del corpo e dell’anima saranno meno profondi visti da quell’altrove.

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