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La dieta mediterranea è una, nessuna e centomila

. Non esiste una dieta mediterranea ma tante declinazioni locali, con eccezioni e distinzioni, del regime alimentare praticato nel bacino del Mediterraneo.

Si pensi solamente al fatto che a nord del mare nostrum si consuma la carne di maiale e i suoi prodotti, si bevono vino e birra, mentre a sud di tale mare carne di maiale e alcolici sono entrambi interdetti per motivi religiosi.
Si pensi al fatto che le tre piante di civiltà, grano, ulivo e vite, sono sì antiche, ma che gran parte degli alimenti cardine della dieta mediterranea sono di origini americana, dunque di moderna introduzione nel sistema agroalimentare mediterraneo: parliamo del pomodoro, del peperone e peperoncino, della patata, dei fagioli (Phaseolus) delle cucurbitacee, del mais e del ficodindia; quest’ultimo è considerato un’icona del paesaggio mediterraneo, ma in realtà di origine messicana e diffuso nei territori solo nel Settecento.

Semmai ciò che appare culturalmente “di lunga durata” nei paesaggi del cibo mediterranei non sono tanto le pietanze e gli ingredienti, alcuni dei quali sono di recente incorporazione appunto, quanto comportamenti, atteggiamenti, valori, ideologie e pratiche attorno all’alimentazione.

Questi atteggiamenti, valori e ideologie sono legati alla socialità, alla convivialità, alla cura e all’attenzione nella preparazione dei pasti e all’autoproduzione di alcune derrate (olio, pane, vino, conserve, confetture, salumi, formaggi).
Pensiamo all’americano medio: consuma la colazione in piedi, spesso fuori casa, a pranzo mangia in mensa, scolastica o aziendale, di sera consuma a casa il pasto, ma comprato pronto al fast food, o recapitato dal take away, o semplicemente scongelato nel forno. Il largo uso di bevande zuccherate e gassate al posto dell’acqua, di cibi pronti ricchi di grassi e il limitato utilizzo di frutta e verdura fa il resto.

Per la prima volta nella storia dell’umanità nel ricco e civilizzato Occidente i nostri figli avranno una speranza di vita inferiore a quella dei propri nonni, a causa della sedentarietà, dell’inquinamento ambientale e della malnutrizione.
Invece lo stile mediterraneo di lunga durata, quello che ha permesso ad un paio di generazioni di mediterranei di raggiungere primati di longevità o almeno età ragguardevoli e in buona salute, prevede che si consumino i pasti a casa, in compagnia, con lentezza, trasformando prodotti freschi, dedicando ampio spazio alla preparazione casalinga delle pietanze e anzi autoproducendo ciò che si consuma, come le verdure dell’orto, la frutta, il pane e via discorrendo.
Lo stile mediterraneo di lunga durata prevede la raccolta di prodotti spontanei seguendo la stagionalità, e dunque di praticare lunghe camminate in campagna, collina e montagna.

Lo stile mediterraneo di lunga durata prevede il consumo di prodotti a filiera corta: di fatti sino al XIX secolo i prodotti che provenivano dall’altro capo del mondo erano riservati alle classi abbienti mentre la maggior parte della popolazione consumava prodotti locali. I coloniali (zucchero, caffè, cacao, spezie, frutta esotica ecc.) erano venduti in esercizi commerciali specializzati, presenti solo nelle grandi città.
La cosiddetta rivoluzione industriale ha condotto da un lato all’industrializzazione del cibo e dall’altro ad un pianeta sempre più interconnesso da mezzi di locomozione (prima a vapore, poi utilizzando il petrolio) e strumenti di comunicazione sempre più pervasivi (difficile spiegare ad un adolescente come è stata la nostra adolescenza senza Internet e cellulari).

Al giorno d’oggi le classi sociali inferiori, chi ha un basso tasso di scolarizzazione, consumano prodotti industriali, ricchi di grassi e zuccheri, mentre le classi egemoni e i ceti intellettuali coltivano orti bio, sono vegetariane, e coltivano un’idea di alimentazione che si avvicina a quella dell’Eden della dieta mediterranea.

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La dieta mediterranea è un mito e una realtà insieme. È un mito perché in passato, quando Ancel Keys rilevò la salubrità della dieta mediterranea, oggi patrimonio dell’umanità, non sottolineò forse abbastanza l’alto tasso di incidenza di mortalità infantile e di denutrizione delle classi popolari, concentrandosi sui fattori positivi, funzionali alla sua ricerca. E’ una realtà perché se al giorno d’oggi c’è una elevata speranza di vita, e la longevità delle blue zone, due delle quali sono allocate nel Mediterraneo, in Sardegna e in Grecia, le dobbiamo anche all’alimentazione salutare che hanno seguito i nostri genitori e i nostri nonni nei decenni passati.

Oggi bisogna interrogarsi sullo scadimento dell’alimentazione, sulla malnutrizione dei giovani, sulle malattie cardio-vascolari e sull’incidenza dei tumori legati alla cattiva alimentazione e alla sedentarietà, in un mutato stile di vita, sempre più passivo, sedentario, asociale, veloce.
In alcune regioni, come la Sardegna, fortunatamente il sovrappeso e l’obesità infantile sono ancora a livelli accettabili e il regime alimentare è sano, grazie alla presenza delle zone rurali alle spalle delle città di cui è costellata l’Isola. Inoltre l’orto, il frutteto e il vigneto costituiscono ancora una pratica amata e considerata un valore da ampi strati della popolazione.

A fronte di questi elementi positivi nelle città maggiori e tra le fasce di popolazione più povere e deprivate culturalmente la spesa al Discount ha sostituito la spesa nelle botteghe, prendendo una china pericolosa, che conduce alla malnutrizione, all’obesità e ad uno stato di salute non soddisfacente.
I costi economici, sociali e culturali di questo trend saranno ben visibili tra qualche lustro. Intanto si può porre rimedio attraverso la divulgazione scientifica dei principi della dieta mediterranea, promuovendo uno stile di vita attivo e la preparazione dei cibi partendo da materie prime locali, insieme al mantenimento di orti e frutteti, che sono un patrimonio materiale e immateriale di biodiversità coltivata, una risorsa e la salvaguardia del paesaggio e dei territori sardi.

Come si diceva alcuni paesi dell’Ogliastra e della Barbagia sono una delle cinque blue zone attualmente studiate da numerosissimi medici e scienziati. Sicuramente i centenari sardi di oggi, che sono nati dopo la prima Guerra Mondiale e sono sopravvissuti alla fame e alla violenza della Seconda Guerra Mondiale, devono la propria longevità anche all’alimentazione e all’ambiente, relativamente isolato. L’alimentazione dei sardi sino agli anni ’60 e oltre era prevalentemente vegetariana, parca, e basata sui prodotti locali, con ampio uso dei legumi e del pane prodotto con lievito madre. L’uso limitato di grassi animali e il consumo pressoché solo festivo, dei dolciumi, li ha portati a kent’annos.

La cultura gastronomica sarda tradizionale è ampiamente ascrivibile nella dieta mediterranea ideale, con centinaia di tipologie di pane, le sue 120 cultivar di fagioli, le sue 20 tipologie di paste alimentari, le sue decine di prodotti lattiero-caseari, le straordinarie agrobiodiversità di orti e frutteti, gli oltre 50 vitigni e via discorrendo. Dalla persistenza di questa ricchezza e complessità di sapori dipenderà la salute dei bambini e degli adulti di oggi nei decenni a venire.

Per chi volesse saperne di più
A.Guigoni, “Il ficodindia, un messicano nel Mediterraneo”, in Africa e Mediterraneo, n.81, 2015, pp. 31-33.
Guigoni, Ciborami Contemporanei e mestiere contadino tra resistenza e omologazione, in Bioresistenze, a cura di Guido Turus, Esedra, 2014.
A.Guigoni, Il cibo. La pasticceria sarda tra tradizione, innovazione e vintage, in Antiche novità, una guida transdisciplinare per interpretare il vecchio e il nuovo, Napoli-Salerno, Orthotes, 2013, p. 91-98.
Elisabetta Moro, La dieta mediterranea, Bologna, Il Mulino, 2014.
Vito Teti, Maledetto Sud, Torino, Einaudi, 2013.

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