Potrà sembrare idea quantomeno peregrina quella di associare il millenario fermentato giapponese al nostro modello alimentare, due elementi che ragionevolmente appaiono distanti tra di loro tanto geograficamente quanto culturalmente.
Altrettanto ragionevolmente sappiamo quanto la terra in cui nostri avi hanno avuto origine, il modello culturale di riferimento, la religione, la famiglia in cui nasciamo, il clima e l’ambiente in cui cresciamo, unitamente a processi fisiologici e psicologici, creino interazioni o interferenze nel processo decisionale sulle nostre abitudini alimentari. D’altronde non sono recenti gli studi scientifici che hanno determinato, obiettivamente, quanto il pregiudizio e l’attenzione selettiva influenzino le nostre scelte in fatto di cibo, molto più della qualità nutrizionale reale del prodotto. È bene rammentare che per una valutazione oggettiva, sia da parte del consumatore che del sensorialista di mestiere, bisognerebbe aborrire quantomeno proprio il pregiudizio e considerare che si ragiona, sin troppo spesso purtroppo, soltanto in misura di ciò che conosciamo o che riteniamo sapere.
Torniamo al tema: il sake giapponese si può davvero abbinare alla Dieta Mediterranea?
Proviamo a sfatare alcune opinioni tanto diffuse quanto errate sul sake: intanto si chiama Nihonshu, che vuol dire letteralmente alcool del Giappone, giusto per differenziarlo da altre bevande spiritose prodotte o meno in Sol Levante, come già detto è un fermentato e non un distillato, non va bevuto soltanto caldo e non è necessariamente un fine pasto, con le debite eccezioni. Se provassimo ad immaginare ai modelli culturali di beva come a delle religioni, un po’ come accade ai francesi con lo champagne, il quadro sarebbe più o meno il seguente: le tre principali religioni monoteiste del bere fermentato sono inequivocabilmente vino, birra e sake giapponese, lo dicono i numeri sulla produzione, il trend di consumo e la popolarità di ciascuno, area geografica dipendendo. Evidentemente Dioniso, né monotono né monofago, men che meno schizzinoso, deve essere approdato anche in Giappone, insegnando all’uomo, più o meno tra il 600 a.C e il III secolo d.C, cosa estrarre dal riso, come e con cosa, per brindare al miracolo dell’esistenza, mettendo l’animo in pace col mondo e con i propri simili. Esattamente come per fratello vino e sorella birra pure il sake giapponese ha una storia millenaria, quale drink tanto popolare quanto esclusivo: la sua narrativa è una trama fatta di arte, storia e leggenda, invenzioni e letteratura, scoperte e cultura, riuscendo ad abbracciare tutte le umane attività, persino religione, bellezza e salute. Il sake pertanto non è certo una moda passeggera, bensì tendenza consolidata: accompagna l’uomo nel lungo fluire del tempo, testimoniando nascita ed evoluzione della Civiltà Nipponica. Si pensi che, ufficialmente, è stato per la prima volta in Europa durante la prima Esposizione Universale del 1873 a Vienna.
Dieta Mediterranea e Nihonshu: si può assolutamente fare!
È una tesi, oggi ampiamente dimostrata, che porto avanti da circa sette anni, portando l’Italia come modello di riferimento, indiscutibilmente il nostro Paese è la capitale della Dieta Mediterranea, con le seguenti argomentazioni:
1. L’Italia e il Giappone rientrano approssimativamente nella stessa fascia di latitudine.
2. Le due Nazioni sono entrambi circondate, quasi completamente nel nostro caso, dalle acque ed hanno un periplo costiero considerevole.
3. Entrambi i Paesi hanno uno sviluppo territoriale stretto in longitudine ma allungato in latitudine.
4. Morfologicamente presentano delle similitudini ed entrambi sono di natura sismica e vulcanica.
5. La gastronomia di Italia e Giappone si celebra attraverso la cucina regionale, ossia per le prefetture nel caso del Paese asiatico, e si può contare su di una buona biodiversità in rapporto alla superficie, sia florale che faunistica.
6. Sia la cultura italica che nipponica del benvenuto viene celebrata a tavola, magari con un “salute” o un “kampai”, con grande senso dell’ospitalità, della convivialità e della condivisione per il buon cibo e il buon bere.
7. Italia e Giappone rientrano negli studi epidemiologici di Ancel Keys per diversi fattori tra cui l’alto numero di centenari tra le rispettive popolazioni.
Infatti, è bene ricordare che tra i Paesi le cui osservazioni hanno dato vita al Seven Countries Study portato avanti dal celebre Ancel Keys a partire dal 1957, che coniò il termine “Dieta Mediterranea”, ispirato dagli abitanti del Cilento, e ne enunciò i dettami, v’era anche il Giappone. Ideato, coordinato e condotto per molti anni dal prof. Keys, è stato un ampio studio di monitoraggio eseguito su oltre 12 mila persone di età compresa tra 40 e 59 anni, appartenenti a 16 aree situate in sette Paesi dislocati in tre continenti. Le analisi ottenute dalle osservazioni fanno riferimento alle relazioni intercorrenti tra abitudini alimentari e malattie del sistema cardiocircolatorio: in via generale, l’incidenza e la mortalità coronarica risultavano decisamente più elevate nelle aree del Nord Europa e del Nord America e più basse nelle coorti del Sud Europa e del Giappone. Pertanto le assonanze tra la Dieta Mediterranea e la Cucina Giapponese sono evidenti almeno dagli anni ’70 del secolo scorso e sottolineano quanto un consumo di alimenti variegati, privilegiando materie prime di origine vegetale, incluso un sano stile di vita, siano tratti comuni dei centenari del Cilento e del Giappone, seppur con ingredienti differenti ma dallo stesso valore nutraceutico e, talvolta, dal simil profilo organolettico. Purtroppo è chiaro che ragioni di natura geopolitica non hanno consentito al prof. Keys di includere il modello nutrizionale giapponese entro una dieta globale o quantomeno associato alla Dieta Mediterranea: ferite di guerra ancora troppo aperte e doloranti, quelle tra Giappone e Stati Uniti, oltre che ingredienti reputati ancora troppo esotici per le tavole occidentali, hanno costituito i primissimi impedimenti.
Adesso che le motivazioni idealistiche, a supporto del connubio Dieta Mediterranea e Nihonshu, sono state espresse, sarà il caso di provare a tracciare delle associazioni di tipo gustativo, quantomeno abbinamenti palatali che schiariscano le idee, non prima però di aver fatto un’altra piccola considerazione…
Sempre più spesso si pensa al Giappone in riferimento alle fermentazioni degli alimenti, natto, salsa di soia e miso in primis, quando in realtà anche i popoli mediterranei ne hanno sempre fatto uso: kefir, olive in salamoia e garum ne sono un evidente esempio, ma si considerino anche moderne correnti avanguardiste della cucina mediterranea che fruttano la fermentazione lattica, processo che sovente rende i cibi più conservati, saporiti e biodisponibili, oltre a ingredienti asiatici.
La chiave di lettura per un ottimale abbinamento cibo-sake è da ricercarsi nell’umami, il quinto gusto scoperto nel 1908 da Kikunae Ikeda, scienziato e professore di chimica dell’Università Imperiale di Tokyo, mentre riuscì ad estrarre per la prima volta il glutammato dall’alga kombu.
L’umami, ergo il gusto che sottende il saporito, a differenza del sapido, lo ritroviamo nei salumi e nei formaggi stagionati, nella colatura di alici, nei pomodori secchi, nelle ostriche e in tantissimi altri elementi, di natura vegetale o animale, che concorrono alla realizzazione della Cucina Italiana e della Dieta Mediterranea in generale. Il sake è un ottimo compagno del cibo, tant’è vero che, anche grazie alla sua bassa acidità, non vi litiga mai, riuscendo persino a non essere schizzinoso né con i sottoli, né con i sottaceti e neanche con preparazioni che contemplino vinaigrette e citronette. Il fermentato giapponese è piacevolissimo con le ostriche, con i funghi ed i tartufi, persino con la pizza e il cioccolato. Sarà divertente sperimentare l’arte del pairing col sake e provare a sostituire le pietanze giapponesi con quelle nostrane; oltretutto, come per il vino e la birra, esiste un sake per ogni giorno dell’anno, per ogni stato d’animo, per ogni tipo di compagnia o meditavo, per ogni pietanza e per tutti i gusti, senza contare che è perfetto nell’arte della mixology.