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Un anno se ne va e tutto resta come prima. Allora perché ci facciamo gli auguri e riponiamo tante speranze nell’anno nuovo? Perché è questa misura di tempo che utilizziamo per capire a che punto siamo della nostra vita: gli anni spesi a studiare o a imparare un mestiere, gli anni sprecati a fare qualcosa, gli anni in cui si ama o odia qualcuno. Ogni nuovo anno può essere l’occasione per raggiungere un certo risultato o per liberarci di qualcosa di scomodo; per portarci avanti nel percorso di esseri umani, che deve avere come obiettivo primario e imprescindibile una felicità di lunga data.

Mentre pensiamo di essere padroni della nostra vita, essa ci sfugge facilmente di mano. Capita che si tralascino i propri voleri e si abbassi l’orizzonte, ritrovandosi soddisfatti solo in parte; capita di lasciare che il tempo passi facendo cose tanto per tirare avanti, perdendo di vista la reale ricerca della felicità, che ha per ognuno un sapore diverso: realizzarsi nel lavoro, farsi una famiglia, essere sotto i riflettori o stare nel più totale anonimato, viaggiare e scoprire, rifugiarsi nel luogo natio. Ad ogni modo, la felicità va costruita e bisogna capire come fare perché sia uno stato continuo, quotidiano e presente.

Partiamo da alcuni elementi base: il dove viviamo può essere utile nella costruzione della nostra felicità? L’ONU ogni anno misura i livelli di felicità negli abitanti dei vari stati del mondo nel suo World Happiness Report1. Risulta spesso che i paesi più felici -considerando PIL, servizi sociali, aspettativa di vita sana, libertà sociale, generosità e corruzione percepita- sono quelli occidentali. Per il 2016 Danimarca, Norvegia, Svizzera, Olanda, Canada svettano nella classifica. Infatti, l’indice di sviluppo umano (PIL pro capite, livello di alfabetizzazione degli adulti e speranza di vita) di alcuni di questi paesi è altissimo, come è il caso della Norvegia, che ha quello più alto, seguita da Australia, Svizzera, Danimarca, Paesi Bassi, Germania e Irlanda.2

Se ancora non ci basta, possiamo eliminare il fattore economico dalla valutazione sulla felicità nazionale, come fa l’Happy Planet Index3. Esso utilizza come criteri per misurarla il benessere percepito, l’aspettativa di vita e l’impatto sull’ambiente di ogni cittadino. Presenta però una situazione ribaltata: qui a stare meglio sono paesi abbastanza poveri economicamente, come il Messico, la Colombia, l’Albania, il Nicaragua, la Thailandia, il Vietnam. Una felicità, la loro, che è forse retaggio del passato, dove un buon clima e le poche esigenze della vita bastavano per essere felici.

In effetti, clima e sole sono sempre stati motivo di contentezza anche per famosi cittadini del prospero Nord. Basti pensare allo scrittore inglese D.H. Lawrence che si allontanava a malincuore dalla coste della Sicilia e della Sardegna; o alla principessa Sissi che scelse l’isola di Corfù per costruire il suo palazzo, l’Achilleion, dove fuggiva per cercare riparo dalla corte di Vienna. Forse questo sarebbe abbastanza per essere felici se non fosse che la variabile economica offusca la grandezza del sole di quei paesi che oggi vantano un tasso di disoccupazione del 22,4%, 24,9% e 12,1% (rispettivamente Spagna, Grecia e Italia)4.

Un buon clima, uno stato che funziona, la scarsa disuguaglianza tra cittadini: è tutta qui la ricetta per la felicità? Non è detto. Non tutti, infatti, sarebbero felici di vivere in paesi dove la qualità della vita è elevata, come in Danimarca, o in altri dove non si percepisce l’ansia, ma che hanno comunque molti problemi, come in Messico. Anzi, il dove conta poco perché la felicità è prima di tutto dentro di noi ed è qui che dobbiamo coltivarla. Essa, tuttavia, dipende sicuramente dal chi, o meglio dal nostro grado di condivisione con gli altri, dalla qualità, piuttosto che dalla quantità, di persone che abbiamo attorno. Certo, esistono i casi estremi, come quello di Christoper McCandless, che scelse la solitudine dell’Alaska per creare la sua condizione di estasi, ma poche persone sarebbero liete di affrontare un “Into the wild”.

Forse dovremmo imparare semplicemente a pretendere la felicità dalla nostra vita, prima ancora che a costruirla, non facendoci trascinare dal flusso degli eventi; non lasciandoci andare, vittime della routine, a dinamiche che vanno controcorrente al nostro volere; non smettendo di credere nei nostri sogni, a prescindere da quanto siano grandi; non rinunciando mai ai nostri diritti; e, soprattutto, non smettendo di cercare quelle persone che ci fanno stare bene. Calvino aveva ragione quando diceva nel suo Le città invisibili che “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Tra i modi di affrontarlo, ce n’è uno che “è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Costruire la propria felicità personale, in effetti, non è facile, richiede sacrifici e lotte. Non bisogna dimenticare, però, nel frattempo, di godere di quella felicità a momenti, fatta delle gioie quotidiane, delle boccate d’aria date dalla cultura o dalla natura, delle chiacchierate con le rare belle persone che incontriamo: tutti fattori che ogni giorno possono riempirci mente, vista e cuore, aiutandoci ad andare avanti alla ricerca della nostra felicità di lunga data.

Daniela Melis

1 http://worldhappiness.report/

2 Internazionale con The Economist e Profile Books Ltd, Il mondo in cifre 2017, Ed. 2017, p. 28

4 Internazionale, op. cit., p. 57

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