Articolo di Milena Fadda
Dall’ invenzione del dagherrotipo, il paesaggio è l’ultimo nato tra i soggetti fotografici.
Se Nadar, pioniere del ritratto, di cui ci restano ben 450 mila negativi su lastra di vetro (esordisce nel 1853) aveva ben chiara la potenza dell’ immagine paesaggistica, tanto da avventurarsi a bordo del pallone aerostatico pur di immortalare Parigi (la prima ripresa aerea della storia), la fotografia del territorio, da mezzo documentaristico ad artistico, in sede contemporanea è traccia indelebile del cambiamento in atto e mezzo insostituibile per la conservazione della memoria.
Come dimostrano i Fratelli Alinari, che negli stessi anni fondano il più importante archivio storico al mondo, comprendente ben 3 milioni e mezzo di scatti allo stato attuale, e stabilendo persino l’ esordio sul mercato delle prime vedute toscane su catalogo cartaceo.
L’ archivio, prezioso monumento storico e storiografico che conserva gran parte della storia italiana e mondiale dalla seconda metà dell’ Ottocento ai giorni nostri, testimonia oltre al paesaggio, rurale e urbano, anche i connotati umani di una società ormai estinta, in cui i volti dell’ Europa contadina si susseguono ai primi mutamenti demografici.
E proprio il Museo Alinari, ha di recente aperto al pubblico l’ opera fotografica di Stieglitz, Strand e Steichen, che con la loro rivista Camera Work, nei primi anni del Novecento, si proponevano, riuscendovi, di instaurare un legame culturale tra Europa e Stati Uniti, in cui la fotografia di paesaggio, completava il panorama delle arti figurative tra i due continenti.
Il paesaggio non più come veduta, ma conservazione di un patrimonio comune, rivive un secolo dopo negli scatti del fondatore della Magnum Photos: Henri Cartier-Bresson e le sue immagini della Francia rurale sulla Marne, e vent’ anni dopo con Willy Ronis, che restituisce la prospettiva aerea della campagna francese in bianco e nero e le cui ristampe nei formati 30×40 cm sono valutate dal 1400 euro in su.
Esattamente come succede a Giacomelli, scoperto dal MOMA di New York, che nel 1963 ne acquista l’ intera collezione Scanno dedicata al paesaggio marchigiano, e reputata fino ad oggi di inestimabile valenza storica e tecnica: grazie alla densità dei contrasti, risultanti dagli ingrandimenti dei provini e dalle esposizioni multiple, il paesaggio urbano si fa sociale.
Il bianco e nero, protagonista assoluto della fotografia anni ’60, cattura scenari di un’ Europa oggi scomparsa nelle riprese di Gianni Berengo Gardin tra cui spicca la Sardegna agricola del 1968; l’ autore viene esposto al Victoria and Albert Museum nel 1975 per la mostra Twentieth Century Landascape Photographs.
Il colore nel paesaggio arriva tardi, ma Niedermayr, Ghirri, Fossati e Barbieri, recuperano tra gli anni ’60 e ’80, in uno studio della prospettiva che oltrepassa l’ abituale percezione della fotografia documentaristica o di reportage di stampo giornalistico.
Protagonista dell’ evoluzione espressiva in Luigi Ghirri è la pianura padana con le sue immense distese isolate e percorsi di nebbia, mentre Guido Guidi approfondisce le emergenti realtà industriali delle coste italiane, da Porto Marghera a Rimini, Niedermayr nelle sue inquadrature surreali e dai colori rarefatti, si concentra sui rischi che il turismo di massa può innescare nella trasformazione del paesaggio.
Ma il continuo mutamento del paesaggio mediterraneo non riguarda solo Italia e Francia: Bruno Barbey, da sempre nelle scuderie della Magnum Photos, è celebre per le riprese della Istanbul del 1968 e dei suoi scenari architettonici, in immagini che spaziano dal grandangolo della metropoli all’ alba, al chiaroscuro del ponte di Galata; al Marocco, terra natale dell’ autore, presente negli archivi di agenzia con le vedute surreali della provincia di Tissa e della Valle di Dades.
Il ritorno al bianco e nero classico è opera di Gabriele Basilico, che scopre il gusto per la fisionomia urbana: nelle serie dedicate all’ archeologia industriale in Italia, Libano, Spagna, l’ autore ci svela il volto non sempre accogliente della città, e del lascito umano all’ habitat naturale.
E dal paesaggio come memoria del presente e delle continue trasformazioni impresse al territorio, nasce nel 2010 l’ iniziativa ad opera di Oliviero Toscani e Salvatore Settis, per una collettiva permanente di sensibilizzazione sullo spinoso tema del nuovo paesaggio italiano.
L’ omonimo progetto, che prevede la partecipazione massificata da parte di fotografi “da strada”, si propone una puntuale documentazione del degrado del territorio della Penisola. Sul sito internet dedicato, è possibile infatti caricare immagini scattate da qualsiasi tipo di apparecchio, unica condizione: ritrarre brutture di ogni tipo, per conservare, nelle parole di Toscani, “ memoria storica della devastazione del paesaggio”, perché anche il brutto, a volte, ha valenza artistica e iconografica: se non architettonica, almeno appeso alla parete.