Heidegger
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Accettare la morte raramente è un fatto semplice. Le persone che si sentono minacciate in qualche modo da questo evento, soprattutto quelle ancora relativamente giovani, vogliono con forza esserne salvati.

L’evento morte è per l’uomo gravida di significato pedagogico e di valenza formativa. Certo, a formarci non è la nostra morte, estrema esperienza della nostra vita, ma l’idea che di essa ci facciamo, il modo di concepirla, di pensarla, di dirla. La morte può giungere a qualsiasi età, ma di solito noi la collochiamo nella tarda età adulta.

Ogni perdita rappresenta in qualche modo un’esperienza di morte. Quando muore qualcuno che amiamo con lui va via una parte di noi, tutta quella parte di noi che gli appartiene. Insieme a quella persona perdiamo un universo di possibilità, perdiamo tutto ciò che avremmo potuto vivere con lui. Ecco perché noi sperimentiamo la morte intesa come perdita in tutto il corso della nostra vita, in un obiettivo mancato, in un desiderio inappagato, in un amore finito, in una malattia, in un lutto. Dovremmo imparare a insegnare a noi stessi a saper pensare alla morte senza banalizzarla. Manca infatti una pedagogia della morte, non sappiamo parlarne ai bambini, né agli adulti, né ai vecchi, perché manca un pensiero pedagogico della morte senza cui non si può avere un autentico pensiero pedagogico della vita.

A dire della morte ai bambini nelle nostre società opulente sono sempre più i giochi elettronici, che mostrano continuamente morti virtuali. E’ certo che da quando si è bambini a quando si diventa adulti il pensiero e la consapevolezza della morte mutano. Infatti, mentre un adulto è consapevole del fatto che l’evento morte causa una situazione di irreversibilità, che arriva per tutti e che comporta la cessazione di tutte le funzioni vitali, i bambini di età prescolare non concepiscono pienamente questi concetti. Per questi la morte è reversibile, ad esempio attraverso la magia; credono che i morti possano ancora sentire o respirare; infine, credono che alcune persone possano sfuggire alla morte, e questo pensiero vale soprattutto per le persone a cui tengono, come i loro genitori.

Solo all’inizio delle azioni concrete, come vengono definite da J. Piaget, che i bambini cominciano a comprendere questi aspetti della morte.

Prima dei cinque anni il bambino riesce a concettualizzare la morte solo come assenza. Vita e morte non sono dissociabili dall’altra coppia di opposti, presenza e assenza. Morto è colui che non c’è, ma può sempre riapparire. E’ fra i cinque e i sette anni che prende forma il concetto di morte. La sua costruzione è parallela a quella del concetto di vita. Nel periodo denominato da Piaget artificialismo tutto ciò che si muove a cui il bambino dà intenzionalità è considerato vivo. Inizialmente il bambino identifica il movimento con la vita: da qui il motivo per cui se si chiede ad un bambino cosa siano i morti potrebbero rispondere: “quelli che non si muovono più”.

Il carattere di irreversibilità della morte viene acquisito relativamente tardi, verso gli otto anni. Prima è un’assenza provvisoria e reversibile. Anche il carattere di inevitabilità è oggetto di una progressiva evoluzione del pensiero. In un primo momento la morte è associata ad un incidente, è la conseguenza di un atto aggressivo esterno. E’ morto chi viene ucciso. Solo più tardi tutto ciò entra a far parte dell’ordine biologico come evento inevitabile.

Per quanto riguarda l’età adulta, non ci si limita al semplice capire i caratteri di inevitabilità e universalità della morte ma essa riveste un significato prettamente sociale. Infatti quando muore una persona cara si modificano i rapporti all’interno della famiglia , ma influisce anche sui rapporti esterni alla famiglia, comportando modificazioni anche a livello sociale.

A seconda dell’età della persona si concepisce la perdita in maniera diversa: i giovani ad esempio temono con la morte di non poter fare più esperienze tanto desiderate, temono una perdita di opportunità, ma soprattutto temono la perdita dei rapporti affettivi; i più anziani, diversamente, si preoccupano principalmente del fatto che non possa bastare loro il tempo per un completamento interiore.

Parlare della morte è parlare autenticamente della vita, perché è nella consapevolezza della vita stessa. La dicibilità della morte diventa quindi un valore esistenziale, culturale e storico, che incide sul rapporto che ciascuno ha con se stesso e con il mondo. Dal punto di vista psicologico è di grande rilevanza il contributo portatoci dal padre della psicoanalisi Sigmund Freud, che introdusse il concetto di morte nel Jenseits des Lustprinzips (Al di là del principio del piacere) del 1920.

Freud, sotto l’urto sconvolgente della seconda guerra mondiale, riconduce la vita umana alla lotta tra due pulsioni fondamentali e antagoniste dell’uomo, che egli chiama Eros e Thanatos, Amore e Morte.

Eros, l’amore, è la forza che spinge l’uomo alle grandi realizzazioni in cui si esprime la sua vita; è il polo positivo, è amore e costruttività.

Thanatos, morte, è la spinta dell’uomo alla distruzione di se stesso e degli altri, che ha dato tragica dimostrazione di sé sui campi di battaglia.

La pulsione di morte sarebbe indirizzata alla scarica totale di tutti gli impulsi vitali, un’autopunizione derivante dall’impossibilità del piacere. Questa spinta aggressiva, Thanatos, è il rivale contro il quale la civiltà si organizza anche mediante repressioni ai danni degli individui, per la necessità di costruire al meglio la civiltà stessa, a prescindere dal suo prezzo.

Un interesse razionale non basterebbe per preservare la comunità da una pulsione così feroce, occorre contrapporle una pulsione di vita, Eros, la cui energia caratteristica è la libido. Essa si contrappone in quanto forza volta alla coesione e alla conservazione della sostanza vivente.

Lo strumento usato per frenare Thanatos viene identificato da Freud con il Super-Io. Freud afferma che l’individuo nel corso del suo sviluppo tenderebbe a identificare come “male” ciò che potrebbe fargli perdere l’amore,e questa paura si manifesta, tra il Super-Io ed un Io angosciato, con ciò che chiamiamo senso di colpa, o bisogno di punizione. Il sentimento di colpa originario, semplice colpa o paura, porta il Super-Io a minacciare di aggredire l’Io. Risulta evidente come il senso di colpa sia l’espressione psichica interna del conflitto Eros-Thanatos: è Eros che, con la paura di dipendere dall’amore, pone le basi della coscienza morale, la quale diviene pura valvola di sfogo per Thanatos.

Anche la filosofia non ha certamente ignorato il tema della morte, non potendo l’uomo facilmente sfuggire al pensiero di essa. Molti filosofi hanno sentito in maniera molto forte questo argomento, tra cui Heidegger, che, partendo da una comprensione dell’essere più o meno vaga, ci permette di capire e di porci delle domande intorno all’essere stesso, fino a giungere ad una determinazione piena e completa del senso dell’essere.

L’uomo trascende sempre da se stesso (ex-siste), è continuamente proteso a ciò che non è e potrebbe essere; l’uomo dotato di coscienza progetta continuamente la sua vita rapportandola al futuro;è questo slancio in avanti che rende l’uomo non una semplice presenza ma una esistenza, sottoposta alla storia e al tempo, quindi al divenire.

L’ente uomo, ossia quell’ente che ha come modo di essere specifico l’esistenza, viene definito “esserci” (l’uomo qui e ora). La condizione dell’esserci è la condizione naturale e imprescindibile in cui l’uomo viene a trovarsi, senza possibilità di scelta, situato nel mondo.

Tale condizione esistenziale ha due modalità, ovvero due possibili modi di essere vissuta: quella inautentica e quella autentica. L’esistenza inautentica è l’eistenza condotta dall’uomo che rifiuta il proprio carattere diveniente: l’uomo che vive l’esistenza inautentica rinuncia alle scelte relative al proprio tendere in avanti, rinuncia al futuro e a qualsiasi progetto. Questo atteggiamento è chiamato da Heidegger deiezione ovvero divenire una cosa come le altre, ente tra gli enti, è quando l’essere dell’uomo si abbassa al livello delle cose del mondo. In questo modo l’ Esserci cade nella quotidianità banale e inautentica che caratterizza i suoi contatti con il mondo. L’uomo vive inautenticamente dimenticandosi della propria condizione esistenziale di essere mortale e soggetto al divenire.

L’esistenza inautentica si perde nel “si dice”, “si fa”, ossia nell’accettazione distratta di un’esistenza già vissuta da altri, e quindi già creata, senza possibilità di creare nulla come novità sostanziale, è la vita di tutti e di nessuno.

L’esistenza autentica è invece quella per cui l’uomo sceglie di vivere coscientemente il suo carattere di ente che progetta e tende al futuro, un ente che esce da sé continuamente, in grado di slanciarsi verso ciò che potrebbe essere.

L’esistenza autentica è quindi quella che accetta il suo carattere diveniente, che comprende, inevitabilmente, la possibilità della nullificazione (della morte e del termine della propria attività di ex-sistere).

L’esistenza autentica è un vivere-per-la-morte. L’essere per la morte heideggeriano rappresenta il passaggio dall’essere alla fine all’essere per la fine. Se l’esserci è sempre un essere per, un poter essere come possibilità, la morte è una di queste possibilità; la più importante, perché ineliminabile e appartenente ad ogni Esserci.

La fuga di fronte alla morte, la banalità della consolazione nel Si inautentico del “tutti si muore” che coinvolge quel si che è tutti in quanto è nessuno, rappresenta per Heidegger l’insinuarsi del mondo inautentico. L’anticipazione della possibilità, insito nell’essere-per-la-morte rappresenta, invece, l’autenticità dell’esistenza e apre l’orizzonte della responsabilità.

L’uomo è richiamato all’esistenza da quel fenomeno che Heidegger chiama voce della coscienza, ossia il richiamo all’esistenza a se stessa che si rivolge all’uomo, lo richiama a se stesso, a ciò che autenticamente è e non può essere, richiama l’esistenza al proprio nulla di fondo, che consiste nel fatto che l’uomo, pur essendo il fondamento di sé stesso in quanto autore delle proprie scelte, è pur sempre un “progetto gettato” e ne consegue che non è fondamento del proprio essere; inoltre l’uomo può progettare determinate possibilità solo escludendone altre e ciò porta ad una decisione per il nulla che coincide con la decisione anticipatrice della morte.

Nell’esserci c’è qualcosa che può essere e sarà la sua stessa fine, la morte, la quale è certa, è una possibilità che si impone necessariamente all’uomo il quale deve riconoscere la possibilità di assumerla come scelta anticipatrice, in modo che egli sia consapevole del fatto che la sua esistenza è limitata e riesca a vivere fuori dalle illusioni e dall’esistenza anonima, continuamente accompagnato da quella tensione emotiva che nasce dalla consapevolezza dell’essere tra l’essere e il nulla.

Trovandosi di fronte al nulla, ossia quella possibile impossibilità della sua esistenza, l’uomo è dominato dalla sensazione emotiva che è l’angoscia.

Per Heidegger l’angoscia è la paura che nasce dalla consapevolezza che con la morte tutto si annulla. Egli afferma inoltre che la nostra vita può svolgersi entro un orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate alla nostra finitezza. Se le nostre scelte fossero svolte entro un ambito di vita eterna, perderebbero di significato, perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità.

In sostanza Heidegger pone la vita-per-la-morte come concetto positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di produrre quel significato e quella tensione per le cose del mondo che non potremmo avere se, perduti nell’eternità, avessimo la consapevolezza di poter godere in eterno.

L’angoscia che deriva dalla consapevolezza della nostra finitezza, oltre ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all’esistenza autentica è anche un sentimento positivo, necessario a dare significato autentico alla nostra vita.

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