Paolo Fresu
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La musica del Mediterraneo – come, più in generale, la sua cultura – è la sintesi di quanto è avvenuto nel corso dei secoli sulle sue sponde. Sin dai tempi antichi, il Mediterraneo è stato solcato da uomini alla ricerca di novità e conquiste, animati dal desiderio di conoscenza e di dominio: il mare è stato, allo stesso tempo, un confine e un punto di unione per i popoli che si sono affacciati sulle sue coste. La conseguenza è stata una naturale fusione di lingue e costumi, di suoni e colori durata millenni, un sostrato comune e sedimentato.

Il principio dell’unità e dell’unicità della cultura mediterranea si pone come paradigma di tante possibilità espressive. Akim El Sikameya lo ha utilizzato come tratto distintivo forte nel progetto Med’Set Orkestra. Rispondendo ad una commissione del Festival Sete Sóis Sete Luas il cantante algerino ha dato vita a un gruppo composto da artisti tradizionali, provenienti dalle diverse parti del Mediterraneo, ciascuno ai massimi livelli della sua scuola. «Ho voluto dimostrare e dire finalmente che la cultura mediterranea è un’unica cultura, le sue frontiere sono solamente politiche. Ho scelto i musicisti e le opere in maniera federale, per cosi dire: ognuno ha cantato nelle lingue degli altri, per far smarrire l’ascoltatore che non riesce a capire a quale cultura appartenga ciascuna canzone.» E così, un nuovo oggetto sonoro è nato in maniera spontanea da materiali antichi, radicati nella conoscenza e nello spirito di ogni persona del Mediterraneo, per arrivare a mettere in evidenza la grande ricchezza e l’unità profonda dei tanti linguaggi.

In maniera diversa si è sviluppato il ragionamento che intorno al 1960 ha portato Miles Davis, John Coltrane e, con loro, molti dei più eminenti personaggi del jazz a cercare nuove soluzioni nell’uso dei modi della musica della Grecia antica. Una lettura – estremamente moderna e filtrata attraverso un percorso storico lunghissimo – di un patrimonio musicale e di linguaggi che ha permesso uno sviluppo dalle potenzialità pressoché infinite. Grazie all’utilizzo dell’improvvisazione, alla grande tecnica dei suoi interpreti e alla predisposizione alla miscela tra sensibilità e attitudini diverse, il jazz ha trovato una sponda felice nella pratica dell’incontro, da sempre viva nei secoli tra le varie sponde del Mediterraneo, e si è nutrito dell’apporto democratico delle diverse influenze.

Queste due esperienze – risalenti rispettivamente agli anni 2000 e agli anni ’60 – naturalmente non esauriscono il quadro. Si può andare a zonzo nei secoli per ritrovare l’enorme importanza della migrazione forzata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, alla fine del quindicesimo secolo e l’influenza sui linguaggi dei popoli che sono stati interessati, volenti o nolenti, dal percorso seguito dai marranos e dai moriscos. La figura di Django Reinhardt può essere l’esempio di come abbia agito la personalità geniale di un singolo musicista a contatto, allo stesso tempo, con le proprie radici gitane, con le canzoni popolari della Francia di inizio secolo e con le prime avvisaglie del jazz provenienti dagli Stati Uniti.

E gli esempi da portare al ragionamento potrebbero essere molti altri. La parola cruciale resta come sempre sintesi: il termine contaminazione ha un portato fastidioso e, con il suo retaggio sottilmente negativo, mette in mostra come il Novecento, da una parte, e la società occidentale, dall’altra, abbiano preteso una loro centralità nella storia del mondo. La pratica secolare di incontri, influenze reciproche, curiosità, vicinanze indesiderate ma obbligate, dimostra in modo lampante la necessità dei popoli e degli artisti di entrare in contatto tra loro, di conoscere, di condividere. Un processo in atto da sempre, proprio nel momento in cui – a livello politico, militare o commerciale – avvenivano lotte sanguinose, rivolte all’annientamento degli altri popoli e velocizzato in maniera esponenziale dall’avanzare delle tecnologie e dalla sempre maggiore rapidità degli spostamenti. La differenza tra oggi e i secoli passati è nel fatto che il confronto tra le culture si è sviluppato nei secoli precedenti in modo meno consapevole e più spontaneo, mentre, da un certo punto in poi, gli interpreti abbiano ricercato in maniera cosciente e voluta soluzioni che tenessero conto di influenze diverse, con l’intenzione di poter dare vita ad esperienze di sintesi e incontro: una decisione consapevole e, per certi aspetti, razionale del singolo musicista che attraversa il confine delle tradizioni e degli orizzonti per aprirsi a culture diverse, senza essere costretto da vincoli storici o geografici.

Il risultato è nella pratica di molti jazzisti dell’area mediterranea: la loro musica usa come ingredienti le sonorità tipiche delle varie regioni, se ne appropria con la vocazione “invadente” del jazz, con la sua abilità nel mescolarsi e nello sparigliare le carte: linguaggi nuovi, spesso in aperta e felice contraddizione, pronti ad accogliere improvvisazione e bagagli espressivi coltivati per millenni.

Negli anni, l’approccio di questi musicisti si è evoluto e, di conseguenza, il rapporto tra le proprie radici e le tradizioni del jazz, il rapporto tra la propria personalità e l’improvvisazione, la libertà ma anche le esigenze di questa pratica. La capacità di sperimentare e raccontare, di sintetizzare linguaggi mantenendo vive le peculiarità di ciascun singolo elemento possono dare vita ad una ricerca costante e mai fine a sé stessa. Il confronto con esperienze sempre nuove e progetti di ampio respiro è figlio – per utilizzare le parole di Paolo Fresu – della «curiosità che deve abitare dentro al musicista ed in particolare dentro al jazzista. La storia di questa musica insegna che bisogna essere non solo curiosi ma aperti verso il nuovo. Solo così si può, ogni giorno, fare un’altra musica. Del resto il jazz nasce come musica di contaminazione e dunque di incontro e di scontro. Dopo un secolo, non solo dobbiamo confermare questo ideale, ma dobbiamo alimentarlo. Ciò che il jazz ha vissuto agli inizi del Novecento non è altro che la lucida anticipazione dei tempi di oggi, compresi tutti i problemi che stiamo vivendo. E poi non c’è solo la musica, ma c’è un’arte più totale e più complessa della quale ci si può alimentare. Insomma, per me è fondamentale vivere la musica e l’arte tutta nella sua complessità per dare senso al mio lavoro.»

Questo articolo sviluppa alcuni passi tratti dal libro “Le rotte della musica“, edito da Ianieri edizioni, Pescara.

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